Un pò di me e la mia intervista con Maurizio Costanzo e più in giù in nuovi post

lunedì 26 dicembre 2011

Il giorno che nasce





La prima cosa che faccio appena sveglia è guardare, annusare il giorno che nasce. E lo faccio piena di fiducia, da inguaribile ottimista. Non tutti i giorni sono buoni, lo so bene, ma sono i miei giorni ed io non ho scelta, però mia è la volontà, la possibilità di viverli al meglio di ciò che potrò.
Questa notte ho fatto dei sogni ed io credo ai sogni, così come credo al mio intuito. I desideri, per realizzarsi, hanno bisogno di tempo e di compiere il loro cammino, ma arriverà l'alba che li realizzerà...lo so.
Buon giorno giorno, ti stavo aspettando ^_^

giovedì 1 dicembre 2011

Dialogo tra sogno e realtà



Ma ti rendi conto che la fuori ci sono infinite opportunità?
Che la realtà si sdoppia, triplica, moltiplica?
Ti rendi conto che tra un minuto la vita potrebbe farti vivere qualche cosa d’impensabile?
Oppure arbitrariamente farti incontrare qualcuno di cui ignoravi l’esistenza, o bramavi la conoscenza?
E ti rendi conto che non ti basterà la vita per ascoltare tutta la musica, leggere ogni libro, conoscere i pensieri, i balletti, le opere d’arte, gli spettacoli teatrali, i film, le leggende, le storie, i collegamenti che potrebbero spiegarti l’universo?
Insomma, ti rendi conto che ogni istante potrebbe regalarti un’avventura fantastica in un qualsivoglia ambito della tua vita?
No, a dire il vero non lo penso.
Vivo una vita normale, quasi monotona. Tu dici queste cose, ipotizzi scenari affascinanti, ma le persone comuni non vivono, o non sento di vivere, nelle immagini che descrivi.
Noi viviamo delle nostre quotidianità, delle nostre fatiche, dei nostri dolori e di piccole, piccolissime gioie.
Tu non vedi il mondo come lo vedo io, davanti ai tuoi occhi c’è un orizzonte infinito in cui le nuvole corrono, il sole splende ed il cammino ed i possibili incontri sembrano non avere mai fine.
E’ un altro mondo, un mondo a cui io non ho accesso.
Per molti di noi la giornata è fatta di autobus che non arrivano, di capi che non ti stimano, di piccole case che si affacciano su cortili grigi, di relazioni naufragate in fretta in qualche cosa che non sapremmo definire, ma che non ci piace.
Io vivo così il mio tempo. Non sognavo questo, cosa credi, ma ho la sensazione di non aver avuto scampo. Doveri e sacrifici, la vita me l’hanno spiegata così.
“Cosa credi?” hanno detto anche a me quando la gioventù mi tentava a grandi progetti.
Non ho saputo ribellarmi, è vero, mi sono arreso in fretta ed oggi non so scusarmi. Avrei potuto provare, ma non ne sono state capace, non possiedo abbastanza carattere o forza.
Ribellarsi richiede una dose di energie che il mio dna non prevede. Vedi, anche in questo il fato non mi ha aiutato…ed ora, spenti i sogni, cammino in una società che non mi degna di uno sguardo, che non è interessata alla mia felicità, che non si pone neanche il problema della mia felicità, ma pretende, pretende incessantemente che io contribuisca al suo funzionamento. Che io usi per lei le poche energie che ho. Devo produrre, accettare, contribuire, adempiere e rispettare. La lista dei miei doveri è lunghissima e non trovo più la mappa dei miei piaceri. Non li conosco, non voglio conoscerli. Ritrovarli mi renderebbe triste con un’intensità che non potrei tollerare.
E’ andata così, sono rassegnato.
Non vivo un dramma, io sono il dramma. Lo so. Il tuo orizzonte fantastico per me non esiste e non voglio immaginarlo, mi ferirebbe l’anima e non voglio altre ferite.Ma ti capisco e t’invidio. Senza cattiveria però, sono tra quelli a cui l’alienazione impedisce anche di provare questo sentimento. Sarebbe bello provarlo, sarebbe una scossa di vita.
“ Ma non puoi vivere così, è folle!”
Certo che lo è, ma la follia è nel sistema ed io di questo sistema sono solo forza lavoro, non servo ad altro.
"Ma puoi innamorarti, ascoltare la musica, leggere dei libri, puoi fare tutto ciò di cui io ti ho parlato.”
“ Certo che posso, ma ormai ho paura di ciò che potrei scoprire.”
“E cosa potresti scoprire di così terribile?”
“Che non sono più capace di sognare!”
“Ma è impossibile, tutti hanno questo dono.”
“ Certo, ma quando si arriva al mio stadio la strada è senza ritorno. Bisogna fermarsi prima, imporsi un allenamento, io non l’ho fatto ed ora, a dire il vero, anche solo ipotizzare di voler sognare mi affatica. Sono dentro a questa piega grigia ed il mio animo si è abituato alla mancanza di colori. Forse questo era il mio destino. Forse non sono capace di altro. Forse tutto sommato sto bene così.
“Come puoi dirlo, non hai neanche provato?”
“ Dovrai imparare ad accettare che il tuo mondo fantastico può non essere così fantastico per tutti. Forse esistono persone che, come me, preferiscono i mezzi toni, le strade note, i volti familiari, i percorsi già battuti. Io non so rischiare.”
“ Ma che rischio c’è nell’essere aperti alla vita, non capisco?”
“ Per volare bisogna avere un’anima forte ed ali allenate, altrimenti ti schianti. Io non ce l’ho e dunque, posso solo camminare rasente ai muri con lo sguardo che evita di sollevarsi troppo spesso al cielo. Ma non credere che mi dispiaccia più di tanto, io servo a questo mondo più di te.
Io non creo problemi, tu sì. I sognatori per la società sono una seccatura, non si adeguano, non smettono di credere nell’impossibile, non abbassano lo sguardo. Pretendo di avere, esattamente come la società che li contiene. Ma lei è grande e molto più forte e per questo riesce quasi sempre a vincere, anche sui voi sognatori. Mentre io per lei sono quasi invisibile, prende quel che posso darle e poi mi lascia in pace ed io sono salvo. E’ con i tipi come te che si accanisce e non smetterà mai di farlo.
“Ma io non potrei vivere come te. Avrei l’impressione di essere già morta ed allora che senso avrebbe il susseguirsi dei giorni?”
“Ecco forse è qui la soluzione dell’enigma: è la presunzione dei sognatori che non ci piace. Voi guardate il mondo dall’alto della vostra immaginazione che corre veloce, che s’intrufola ovunque, che vola e sembra inarrestabile, incontenibile, in imprigionabile. E ci fate sentire degli inetti, dei codardi, degli incapaci.”
“Forse lo siete.”
“E’ quello che sto cercando di dirti dall’inizio di questa stramba conversazione, ma averlo scoperto non rende meno amara la notizia.”
“ Io proprio non capisco, noi sognatori vorremmo portare tutto ciò che vediamo e pensiamo possibile davanti a voi e condividerlo con generosità ed invece tu, voi, ci detestate. Paradossale!”
“Umano, mia cara, miseramente umano.”
“Dunque aveva ragione Schopenhauer quando sosteneva che la società tenderà a non valorizzare le doti, l’intelligenza, il genio, ma anzi cercherà di schiacciarle?”
“ Sì, tendenzialmente è quello che è accaduto, accade ed accadrà.”
“ Ma è assurdo, è dei loro contrari che il mondo non ha bisogno. Cosa ci fa con uno stupido od un inetto?”
“Lo usa e lo gestisce, ad uno stupido puoi raccontare qualunque amenità.”
“Ma non è quello che accade, la storia ci racconta di grandi menti, rivoluzionarie scoperte, fulminati intuizioni quindi…”
Lui rise, rise paternamente.
“ Quindi io non ti ho mai detto di smettere di sognare. La società ogni tanto si distare ed i sogni sono veloci…sogna bambina, sogna…”

venerdì 18 novembre 2011





Diciamo che credo ai cicli della vita ed alla storia che di vita umana è fatta.
Diciamo poi che la storia ci racconta, con profusione d’esempi, che gli esseri umani ed i loro comportamenti non mutano con il mutare dei secoli. A volte imparano, molto spesso ripetono e in qualche modo avanzano nonostante improvvise regressioni e dolorosi capitaboli.
Diciamo che non c’è niente di più umano, in quanto a passioni, debolezze e virtù del nostro emotivo e antico popolo.
In dieci giorni sotto ai nostri occhi è successo l’impensabile.

In dieci giorni siamo passati dal grottesco scurrile all’intelligenza elegante.
In dieci giorni in Italia si è compiuta una trasformazione che pensavo realizzabile in un altro ventennio, tanto basso era il fondo in cui ci stavamo attardando.
In dieci giorni alcuni uomini mi hanno dimostrato, cosa che sapevo già ma ricordarlo male non fa, che si può invecchiare in molti modi e lasciare la propria firma in questo mondo sotto azioni di elevato rilievo o di disonorevole egoismo.
Come sempre si può sciegliere ed io propendo sempre per l’espressione alta dell’essere umano. In genere è la più faticosa ed impegnativa, ma il senso di beatitudine che ne consegue ripaga di tutto…o quasi.
Insomma, diciamo che mentre vedevo sfilare davanti alle telecamenre i nuovi ministri del neonato governo, leggevo contestualmente i loro profili professionali ed ascoltavo le parole misurate, ironiche e lungimiranti del nuovo premier molto mi sorprendevo, un po’ mi commuovevo ed  "INCREDIBILE!” mi ripetevo.
Ma dietro a tutto quello che vedevo accadere,o percepivo con i miei sensi disorientati sapevo esserci sempre lui, il grande vecchio della Mia Repubblica: Il Presidente Napolitano.
Io per mia formazione culturale ed emotiva ho un rispetto ed una profonda attenzione per chi ha vissuto molto più di me.
Un proverbio africano recita: “ Il giovane corre veloce, ma il vecchio conosce la strada”.
Ecco, credo che il Presidente Napolitano mi abbia insegnato molte cose, alcuni concetti li conoscevo già, ma come dicevo prima i promemoria sono importanti.

Punto primo: nella vita tutto può succedere e quello che sembrava non dover succedere mai prima o poi accade e, per quanto l’aspettavi, ti sorprenderà sempre.
Punto secondo: il potere rende gli uomini arroganti, presuntosi e irrispettosi. La vita, che ha un potere infinito, in qualunque momento ed in un momento ridimensiona e riposiziona gli ordini reali dei fatti e delle persone.

Punto terzo: presunzione, arroganza, ignoranza e mancanza di rispetto sembrano vincenti nel breve periodo e davanti a menti pocco illuminate. L’intelligenza, la preparazione culturale, la saggezza hanno invece sempre ed almeno un’occasione per dimostrare che la precedente teoria è una bufola degli stolti e per gli stolti.
Puno quarto: i cambiamenti avvengono in un attimo, ma partano da lontano. La mutazione genetica a cui abbiamo assitito nel nostro parlamento è iniziata, sempre secondo me, diversi anni fa rendendosi visibile con l’elezione di Obama ed ora sta continuando la sua parabola mondiale.

Punto quinto: si dice che il minimo battito d'ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall'altra parte del mondo ». Applicate questa teroia come volete, ma che tutto sia concateato mi sembra evidente.

Punto sesto: Forse per alcune persone è più importante far baldoria che vivere saggiamente. E’ più importante possedere che essere. Schiacciare il prossimo piuttosto che rispettarlo. Ma poichè la linea di ricapitolazione arriva per tutti, non è bello assistere a declini tristi e pieni di disonore da parte di chi recitava la parte del divino e finisce per interpretare il più ridicolo degli uomini. N.B. Anche chi vive saggiamente si diverte, solo che lo fa con un altro stile.

Punto settimo: il decoro è sempre una buona idea.

Punto ottavo: quando l’intelligenza ed il buon senso perdono la pazienza diventano giganti impossibili da fermare.

Punto nono: la vita è fatta di cicli, chissà perché alcuni esseri umani credono che il loro sia infinto.

Punto decimo, il più importante, quello che conoscevo già per esperienza familiare: non esistono limiti se non quelli che c’imponiamo o che tentano d’imporci. Giorgio Napolitano, anni 86, ha traghettato la nostra penisola verso un nuovo orizzonte. Il grande vecchio conosceva la strada e ce l’ha indicata. Il grande vecchio ha dimostrato che si possono compiere grandi azioni fino alla fine della nostra vita, fino a che abbiamo la vita dentro di noi. Il tutto dipende da come ci si è posizionati nei punti precedenti.


Linea di ricapitolazione
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Ora tocca a noi, ognuno faccia la propria scelta.

venerdì 11 novembre 2011



C’è qualche cosa che proprio non mi convince in tutta questa storia del tracollo economico.
C’è, per esempio, questa storia dei tagli e dell’austerity di cui il popolo sarà vittima.
Il popolo appunto. Il popolo che, come già accaduto in altri stati ( Grecia, Irlanda, Portogallo e precedentemente ed oltre oceano l’Argentina e l’America) dovrà pagare, soffrire e magari morire di stenti e mancanza di dignità pur di risollevare le sorti di un’economia “apparentemente” moribonda, della cui condizione però non è che parzialmente responsabile.
E poi ce n'è un'altra, ossia quella che mi racconta che i dottori che stanno curando questa gravissima malattia dell’economia mondiale sono gli stessi che, in misure diverse, l’hanno prodotta.
E poi ce n’è una terza che mi lascia perplessa: tutti questi signori, menti altissime e lungimiranti che a turno salgono sul pulpito a dire al popolo che “Le cose così proprio non vanno e per questo saranno costretti ad applicare pene durissime che renderanno la nostra vita già complicata, complicatissima”.
E dalla terza si passa inevitabilmente alla quarta questione, questione che proprio non capisco: perché tutta questa gente (politici, economisti, finanzieri ecc ecc) sembra rimproverare ed incolpare noi di errori o marachelle che in realtà hanno commesso loro?
Perché se si ritengo dotti e saggi dai loro pulpiti, da cui ora ci guardano con sguardi severi e di rimprovero, gridandoci messaggi minatori, perché mi chiedo non si sono mossi prima applicando nuove formule, stoppando quelle sbagliate, inventandosi insomma soluzioni migliori di quelle che ci stanno propinando ora? Perché se sono così preparati ci hanno condotto alla carambola?
In genere in classe sono i maestri e professori a dettare le regole, sempre loro a farle applicare, se le hanno sbagliate, o non sono stati in grado di farle adottare a questi popoli discoli ed un po’ somari. No dico, anche loro come professori valgono pochino…ed io mi dovrei fidare?
E poi arriva l’ultimo dubbio, dubbio che riguarda l’aspetto puramente psicologico: la fretta.
Mesi e mesi di tam tam mediatico in cui si sono rincorse voci, bisbigli ed urla che dicevano al popolo sovrano che la festa a cui l’avevano volutamente invitato ( nella nostra nazione va tutto bene, anzi meglio, anzi meravigliosamente bene. Ridete, godete, mangiate e fate l’amore perché non c’è problema, nessun problema) era finita, chiusa, drammaticamente conclusa. E si sa, alle feste dopo un po’ ci si lascia andare e tutti noi, chi più chi meno, un po’ avevamo esagerato e l’euforia ci aveva reso speranzosi e felici, tutti credevamo di essere ad un passo o dentro la realizzazione dei nostri sogni. E che succede? Secchiata d’acqua gelida e via di corsa a porre rimedio (noi, e sì sempre noi) a tutti questi sciagurati eccessi. Bestia di popolo che non siamo altro!
Veloci, veloci, a testa bassa, senza distrarci, senza avere la possibilità di rispondere, di fermarci a pensare. E già pensare…capire…mettere in relazione i dati…
Ed insomma eccoci qui, tutti rimbambiti di nuove nozioni che continuiamo a non comprendere (fondi monetari, bot, btp, spread, crolli di borsa, indici mb e via così) istupiditi dalla paura, resi ansiosi dai continui richiami, ora sì, ora siamo davvero pronti ad inneggiare l’arrivo del salvatore della patria.
Alla sua nomina, chiunque sarà, sventoleremo bandierine, tireremo un bel sospiro di sollievo ed accetteremo a testa bassa e diligentemente qualunque misura di supplizio di massa. Dimenticavo, saremo anche molti grati di ciò.
Il tutto, e qui sta il vero colpo da maestri, facendoci apparire il suo feroce agire come il minore dei mali.
Come si può infliggere e far digerire ad un popolo (senza che scoppi la rivoluzione) una serie di misure assolutamente anti democratiche che bastoneranno sempre le stesse claudicanti classi sociali? Gli metti paura, molta paura, fretta e se possibile lo fai sentire anche un po’ in colpa… et voilà, l’inganno è servito.
Il popolo piegherà le spalle, caricherà sulle proprie spalle il fardello degli errori e delle colpe, e procederà faticosamente sul sentiero che altri avranno tracciato. Loro, le menti superiori, continueranno una vita agiata e noi continueremo, come facevano gli antichi con gli dei, ad omaggiarli della nostra gratitudine e dei nostri servigi.
E la storia, come vuole tradizione, si ripete

martedì 8 novembre 2011

Incontrarsi in un bistrot


Io e lui ci eravamo incontrati più volte.
Era capitato in casa di amici comuni, in alcune librerie che entrambi frequentavamo, ma tra noi non era mai scattata una simpatia. Ci guardavamo da lontano con indifferenza. Io, a dire il vero, lo guardavo anche con diffidenza perché non amo ciò che è preceduto dalla propria leggenda, e lui lo era.
Ma poi può accadere che…

Un giorno mentre entravo nel solito bistrot l’ho visto. Non so essere più precisa, ma qualcosa mi ha spinto ad avvicinarmi, ad abbassare i pregiudizi.
Ci siamo seduti ad un tavolino per due, vicino alle vetrine che davano sulla strada. Fuori si muoveva la città, ma in quel piccolo angolo di mondo l’atmosfera era rilassante: del buon jazz, luci soffuse, vicini discreti.
La nostra conversazione iniziò in modo disordinato, passavamo da un concetto all’altro senza un filo logico. Eravamo ancora scettici. Tuttavia lo trovai inaspettatamente affascinante. I suoi pensieri mi sorpresero, piacevolmente. Finito il pranzo ci salutammo stupiti di aver provato l’inaspettata sensazione di piacerci.
Da quel giorno ogni volta che tornavo in quel bistrot lo cercavo con lo sguardo, subito, ancor prima di sedermi. Non ci davamo un appuntamento, c’incontravamo senza regolarità, ma un incontro dopo l’altro ci scoprimmo sempre più legati. Tra noi si era creata un’alchimia difficile da spiegare.
Io arrivavo, componevo il mio piatto e poi mi sedevo di fronte a lui. E lui mi parlava raccontandomi la sua storia, i pensieri, i sogni che avevano mosso i suoi passi fino a quel giorno, fino a me.
Mi resi conto che mi stavo innamorando.
Era strano scoprirlo.
Ripensai a tutte le volte in cui ci eravamo incontrati, di quante altre opportunità avevamo avuto di parlarci, di scoprirci eppure questo non era mai avvenuto.
Il concetto del giusto tempo e del punto d’incontro di un cammino erano concetti già assimilati e quindi me li ripetevo. Tuttavia per quanto sei certa di aver capito profondamente un insegnamento, ogni qual volta lo verifichi ne comprendi meglio la forza.
Avevamo dovuto aspettare molti anni, entrambi avevamo dovuto assecondare e vivere un’infinita concatenazione di coincidenze per ritrovarci in quel bistrot finalmente pronti a capirci.
I nostri incontri s’interruppero per tutta la durata delle mie vacanze.
Ogni tanto lo pensavo in quel bistrot ed un sorriso di dolcezza e di nostalgia si apriva istintivamente sulle mie labbra.
Le ferie terminarono con mio grande dispiacere, ma una piccola parete di me ero contenta di ritornare in quello che ormai consideravo il “nostro bistrot”, di rivederlo.
Alla prima pausa pranzo entrai in quel luogo familiare con lo sguardo che corse a cercarlo, non lo vidi. Delusa guardai con più attenzione nei posti dove era solito aspettarmi, non c’era.
Rassegnata mi preparai ad un pranzo solitario e malinconico. Ma mentre mesta mi dirigevo al mio tavolo l’occhio cadde in un punto insolito e lui era lì e sembrava aspettarmi.
Posai il piatto sul tavolo e lo strinsi a me, felice.
Finalmente potevo tornare a perdermi tra le sue parole. E lui mi parlò con quella capacità incredibile di comprendermi che arriva a commuovermi.
Mi stupivo, ma era evidente che entrambi usavamo il linguaggio dell’anima.
Poi, per quanto avessi cercato di allontanare quel momento, arrivò il giorno in cui ad una sua parola seguì un punto definitivo.
Per la prima volta nella mia vita piansi per un libro.
Mai, mai un libro era stato così dentro ai miei pensieri, seguendo esattamente e contemporaneamente ciò che stavo vivendo. Confortando l’accresciuta consapevolezza, la fatica ed il dolore, ma anche la bellezza e lo stupore che avevo dovuto attraversare lungo il cammino.
Non avrei potuto comprenderlo, non così pienamente se la mia vita non fosse precedentemente passata per alcune strade, inciampata in determinati incontri.
Quello e solo quello poteva essere il periodo in cui poteva avere su di me un effetto così  profondo.
Lo chiusi e lo ringraziai.
Mezz’ora dopo tenevo una sua copia tra le mani. Non avevo voluto acquistarlo prima, sono una donna romantica e non credo al caso.

lunedì 17 ottobre 2011

Come in un caleidoscopio


Un piccolo movimento e tutto cambia.
Così è la vita.
Così è la mia vita.
I colori base sono quelli, le combinazioni possibili sono infinite.
Un libro.
Una musica.
Un incontro.
Piccole navicelle capaci di trasportarmi in luoghi sconosciuti.
Pochi mesi, quanti ne potrebbe contenere una mano che semina, ed un susseguirsi di conoscenze che rivoluzionano la percezione di ciò che chiamavo orizzonte.
Credevo di poter camminare verso un punto.
Mi sbagliavo.
E’ possibile muoversi verso più punti.
Cinque libri.
Due stazioni radio.
Uomini e donne portati dal caso. Forse.
I soliti accadimenti della vita.
Piccoli pezzettini di vetro colorato.
Un piccolo scatto della mano.
I vetrini colorati si muovono formando nuovi disegni.
Come è possibile non cambiare?
Eppure c’è chi pensa che il tempo, o meglio ciò che è avviene dentro il tempo, non modifichi ciò che si è.
Ingenuità?
Qualche anno fa nel mio primo libro scrissi: “Non è assolutamente vero che le persone non cambiano mai. Le persone cambiano se decidono di farlo, se scelgono di essere dentro la vita senza corazze impenetrabili”.
Correva l’anno 2005.
I miei colori base sono ancora gli stessi, ma le combinazioni sono cambiate molte volte.
Questo pensiero mi appartiene ancora.


venerdì 7 ottobre 2011

Non fatemi ridere che sono arrabbiata




E’ morto Steve Jobs e siamo tutti qui a proferire parole di riconoscimento ad un talento indiscusso.
Sento però che in questo inno corale alla genialità qualcosa non torna.
E non torna perché nell’Italia degli ultimi decenni raggiungere il riconoscimento del proprio talento è una fatica mostruosa, un’impresa titanica, un dispendio di energie ciclopiche.
Io percepisco una discreta forma di schizofrenia ipocrita quando ascolto giornalisti, politici, capitani d’industria, ma anche lo sconosciuto del cappuccino accanto, esaltare un uomo che se si fosse presentato davanti a loro da signor nessuno, vestito da hippy con le sue idee fantasiose in molti avrebbero preso per pazzo.
Sarei curiosa di metterla alla prova tutta questa gente. Vorrei vedere oggi, quanta fiducia sarebbero davvero pronti a mettere a disposizione di un sogno strambo, di un'ipotesi che magari non riescono neanche a visualizzare.
Perché ad osannare dopo siamo tutti bravi, ma prima?
Ed allora di cosa mi parlano tutte queste persone?
Dove sono tutti questi proferitori di elogi quando, ognuno nel proprio ruolo, sono chiamati ad aiutare, spronare, favorire le idee?
E di che cosa blaterano questi parrucconi sprofondati in comode ed impolverate poltrone?
Di cosa?
Loro, la classe dirigente di un paese che sta cadendo nel baratro, incapace di avere una visione illuminata e lungimirante, mi vuole far credere di condividere la filosofia del folle visionario affamato?
Ma per piacere, evitiamo di cadere nel patetico!
Se Steve Jobs, in quel tempo, avesse parlato a questi signorotti provinciali di pc portatili, iPod, iPhon come minimo avrebbero chiamato i carabinieri.
In questo paese regredito a delle modalità feudali, le opportunità di essere ascoltati o messi nella condizione di avere delle chance è data solo da tre condizioni: discendenza di familiare, montagne di soldi, o scambi sessuali.
Questo è il paese dei cervelli in fuga perché nessuno se li fila, chi volete prendere in giro?
In Italia, in questo periodo storico, un talento siamo in grado di riconoscerlo solo dopo che è divenuto un successo.
Nel resto del mondo lo percepiscono quando è solo un'intuizione, una bozza, un groviglio apparentemente sconclusionato e fanno in modo, lo mettono nelle condizioni di trasformarsi in un successo.
La differenza è immensa!
Questo è un paese vecchio ed obsoleto perché pensa in modo vecchio, si comporta in modo vecchio, preferisce essere vecchio.
In Italia non c’è spazio, non circola aria, i posti fondamentali sono tutti presidiati. Ho l’atroce dubbio che a questo paese non interessi trovare, scoprire, aiutare uno Steve Jobs, né nessun’altro talento. Questo paese non è interessato a collegare i puntini per vedere il senso di ciò che ha fatto e quindi migliorarsi. Questa nazione non guarda in direzione del futuro od è spinta nel futuro. Questa malmessa nazione è sprofondata in una rattoppata ed impolverata poltrona, con la testa reclinata verso il basso, gli occhi chiusi e la bussola del buon senso e del cuore persa chi sa dove.
Ma il rischio vero è che afflosciato in questa assurda posizione, il nostro paese possa esalare l’ultimo respiro senza che nessuno se ne accorga.

mercoledì 14 settembre 2011

Donne


E’ una calda sera d’inizio settembre.
Nel cielo una luna quasi piena.
Questa sera è sera di Taranta.
La cavea dell’Auditorium è colma di gente e per la prima volta uno spettacolo non prevede posti a sedere.
La musica inizia ad avvolgerci e le donne diventano subito un’onda che danza.
Le osservo mentre i corpi si muovono seguendo il ritmo incalzante di una musica antica divenuta moderna.
Molte ballano a piedi scalzi, tenendo le balze delle gonne tra le mani. Sorridono.
Sembrano delle bambine. Bambine felici.
Ballano in circolo e si guardano, si guardano e si sorridono.
Incantate dalla musica ritrovano complicità, somiglianze.
Ho l’impressione che la musica ci trascini tutte indietro o in avanti. Di nuovo dentro ad una femminilità che oltrepassa l’ibrido in cui siamo imprigionate.
I piedi battono il selciato, il sudore scivola sui corpi, i cappelli si muovono come girandole.
Non so quali punti del corpo raggiungano questi suoni. Non so se la musica si diffonda risalendo dalle gambe o cada invece sulle teste inebriando la mente.
Ma questa onda di donne danzanti esprime la gioia dei corpi e la loro profonda bellezza.
I molti uomini presenti ci osservano stupiti; la forza dell’atavica femminilità gli è quasi sconosciuta.
I loro occhi raccontano per loro il piacere di quest’incontro.
L’onda continua a danzare anche quando tra la folla si fa largo un gruppetto di amiche. Forse sono capitate in questa piazza per caso, forse non conoscono il significato di questa musica, forse...
Indossano abiti attillati, tacchi proibitivi, borse firmate appese a braccia atteggiate in posture innaturali. Gli immancabili iPhon tra le mani. Si fermano in mezzo all’onda senza ballare.
Il ritmo della musica non sembra raggiungerle.
Esili figure statiche.
Così impietosamente fuori contesto. Caricature di una femminilità falsamente sofisticata.
Ogni donna ha il suo modo di essere donna, è la meraviglia dell’umanità il suo racchiudere infinite sfumature. Ma queste donne sono cloni umani di manichini anonimi.
Malinconici.
Intorno a loro donne di ogni età ridono, si agitano e poi saltano e giocano sfiorandosi nelle improvvisate coreografie.
Non calzano tacchi che minano le loro caviglie, non indossano abiti che serrano i corpi.
Sono libere.
Libere.
Libere di sudare.
Sporcarsi.
Spettinarsi.
Libere di ballare, non ancheggiare, ballare.
Libere di lasciarsi andare.
Libere di seguire un ritmo intimo, unico.
Ballano tra loro queste donne, non per gli uomini che le circondano.
Non vogliono sedurli ed è questo che li seduce.
Gli asettici manichini intanto si fotografano tra loro.
Sorridono ai cellulari, non si sorridono.
Sempre ferme, sempre contratte.
Donne patinate. Pettinate. Perfette.
In questa calda notte della Taranta, chissà, chissà dove hanno dimenticato se stesse?


giovedì 8 settembre 2011

Gli indifferenti


Per la mia nazione sono i giorni del risveglio, un brutto risveglio.
Dopo un sonno paragonabile a quello di un incantesimo, il popolo si è destato.
Potrebbe essere una bella notizia in un orizzonte di pessime notizie. Lo è, ma solo a metà, almeno secondo me.
Mi solleva constatare che le menti sono tornate a funzionare ed i cuori a pulsare di una passione che ha il sapore intenso dell’attenzione, della partecipazione, della presa di coscienza.
Finalmente abbiamo di nuovo voglia di personalità illuminate, di pulizia morale, di etica, uguaglianza e incredibilmente di giustizia sociale!
E questo è il buono che ritorna. Era ora!
Purtroppo però il sonno è stato talmente lungo e profondo che solo quando abbiamo riaperto gli occhi, ci siamo accorti che, nel frattempo, ci avevano trascinato sull’orlo del baratro.
“Fermi tutti!”
“Pericolo!”
Le urla hanno iniziato ad echeggiare, mentre i nostri sguardi scivolavano lungo il vuoto in cui potremmo cadere.
Gran brutta sensazione quella di ritrovarsi là in fondo, sfracellati.
Niente piume, né molle, ma uno schianto secco ad accoglierci.
E poiché di schiantarci proprio non ci va, il popolo di nuovo vigile si ribella.
Niente di eclatante sia chiaro. Noi siamo gente che le rivoluzioni le fa a modo suo, con calma e possibilmente seduti sul divano di casa. Anche perché il mio popolo è un fanciullo pieno di potenzialità ma ancora acerbo.
La nostra nazione ha solo 150 anni e la giovane età non ci concede la malizia e la lungimiranza acquisita da stati ben più “maturi”.
“Un popolo pischello” direbbero i romani.
Sarà dunque a causa della giovane età che la mia bella gente non si è allarmata quando, nel corso degli anni, cricche di faccendieri lucravano sulle disgrazie d’intere regioni.
Per inesperienza non abbiamo compreso fino a che punto fossero mortali i colpi inferti all’istruzione pubblica, alla ricerca, alla dimenticata cultura.
E come potevamo sapere che il tracollo finanziario del resto mondo poteva riguardarci? Noi siamo una nazione che lavora sodo e risparmia e compra casa. Il precariato riguarda un’esigua parte dei nostri concittadini, pensavamo, per questo sembrava una faccenda irreale, lontana dal nostro consolidato benessere.
Il mio giovane popolo poi si teneva informato, ascoltava la tv ed era una costante gara di rassicurazioni: "Va tutto bene, viviamo nella penisola più bella del mondo in cui, tra l’altro, puoi anche fare degli illeciti, godertela tra giovani corpi, sbattere in faccia a tutti le tue nefandezze senza che nessuno ti chiuda in galere". No dico, perché mai la mia gente avrebbe dovuto allarmarsi o non credere o non fidarsi?
Mica è scemo il mio bel popolo, se li è scelti da solo questi politicanti.
E poi va detto, anche la religione ci confortava: siamo tutti peccatori e che dobbiamo saper perdonare. Dunque che altro avremmo dovuto fare? Abbiamo sorriso e perdonato.
Non eravamo indifferenti, dormivamo il sonno della beata gioventù.
E dormivamo sereni anche mentre qualche politico perfezionista tentava di riscrivere la nostra meravigliosa costituzione. O quando, sull’entusiasmo della famosa goliardia italica, qualcuno si lasciava andare a proclami e battute omofobe, razziste, misogine o denigratorie d’intere categorie sociali. Noi del popolo si pensava scherzassero. Quindi sorridevamo e perdonavamo.
O per lo più ritenevamo che la cosa non ci riguardasse. Perché avremmo dovuto pensare che in fondo siamo tutti potenziali disabili, futuri vecchi bisognosi di assistenza, o genitori di probabili disoccupati, o di figli brutalizzati dalla violenza di qualche pazzo intollerante?
La nostra mancanza di vita vissuta c’impediva di comprendere tutto ciò. E poi, ammettiamolo, non erano argomenti che sentivamo nostri.
Ma quando questi politicanti sono arrivati a toccare la parte concreta della vita, ossia il nostro denaro, ecco a quel punto lì non abbiamo tentennato neanche un istante.
Noi davanti ai nostri soldini diventiamo subito seri e c’incazziamo. Di brutto.
E si vede, lo stiamo dimostrando al mondo intero. Una mobilitazione dopo l’altra e quando il popolo s’incazza, si sa, fa paura. E tremano i nostri politicanti, uhhh come tremano…!
Ed è per questo che sono felice del nostro risveglio. Finalmente abbiamo compreso che qualcosa in questo sistema non funziona e siamo pronti a difendere i nostri diritti, pardon, i nostri portafogli.
D’altronde siamo un popolo giovane e come tale concentrati solo su noi stessi.
La maturità di comprendere che una nazione indifferente al bene pubblico è una nazione debole ed esposta è consapevolezza che verrà poi, fra qualche centinaio di anni.  Dobbiamo ancora maturare e provare sulla nostra pelle che il disinteresse è pericoloso ed incivile. Popoli più scaltri e saggi hanno appurato da decenni che il rispetto civico del diritto del singolo e l’unica strada per la tutela di un intero popolo.
Ma noi siamo giovani e un po’ scapigliati e questo, non è mica una colpa.
O no?

venerdì 2 settembre 2011

Un pensiero logico, è sempre ovvio?






La vita è fatta d’incontri, d’incontri non necessariamente umani.
Si può incontrare un luogo, una pianta, un sasso, un animale.
Si può incontrare qualcosa di astratto come un’idea, un desiderio, un sogno.
Non importa cosa s’incontra, la cosa fondamentale è come ci comporteremo noi rispetto a quell’incontro.
Se lo vedremo. Se saremmo disposti a fermarci per comprenderlo. Se lo sapremo valutare. Apprezzare. Oppure se con noncuranza, superficialità od indifferenza passeremo oltre o lo butteremo via.
La vita che a volte è assai benevola, potrà offrirci più occasioni; d’altronde conosce assai bene la miopia degli uomini.
Però potrebbe anche offendersi per la superbia o la distrazione che gli dimostriamo e quindi riprendersi il suo dono per offrirlo a chi, meglio di noi, sarà capace d’apprezzarlo.

Ventiquattro ore! Solo ventiquattro ore e lei aveva avuto la possibilità di comprendere concetti importantissimi, vitali.
Lei amava, adorava ritrovarsi dentro a quelle porzioni di tempo.
Aveva la sensazione che tutto si contraesse come in uno sforzo finale, come nell’ultima spinta che permette ad una madre di far nascere il proprio figlio, o all’inventore di trovare l’ultimo passaggio per rendere funzionate la propria invenzione.
Così accadeva per i pensieri, per i suoi pensieri.
Se ne stavano nella sua mente più con l’aspetto di domande in via di definizione che di concetti conclusi.
Camminavano, si accovacciavano, a volte improvvisamente iniziavano ad agitarsi fino ad arrivare ad urlare scalmanati. E poi, improvvisamente, quasi senza una motivazione precisa, la vita la portava ad incontrare qualcuno, o qualcosa, od un concetto astratto e tutte quelle domande si mettevano in fila e davanti a quell’incontro si trasformavano in pensieri limpidi e tutto diveniva sorprendentemente chiaro, ovvio.
Così era accaduto quel giorno, quando per noia era entrata in un luogo e imprevedibilmente aveva incontrato un concetto astratto ed aveva deciso di fermarsi a dialogare con lui.
La mente in preda ad un raptus di collegamenti si era messa a lavorare velocissima e le risposte erano arrivate una dietro l’altra, in un susseguirsi di scoperte e logicità che l’aveva lasciata incredula e felice.
Come diamine aveva potuto non comprendere prima?
Quelle intuizioni, che avevano tanto le sembianze di vere e proprie risposte gentilmente offerte da quegli insoliti incontri, rivoluzionavano la sua vita ed il proseguimento del suo cammino.
Improvvisamente sapeva perché una tal cosa, una cosa importantissima per lei, sarebbe accaduta e perché avrebbe funzionato. In quel luogo, parlando con quel concetto, aveva incontrato qualcosa di se che fino a quel preciso istante aveva ostinatamente ignorato. Ma gli incontri sono fatti per questo, per svelarci ciò che da soli non saremmo in gradi di capire. Ed il tempo, oh quel galantuomo del tempo, lui svela ciò che gli esseri umani hanno stupidamente cercato di nascondere.
Ed affinché non le sorgessero i soliti dubbi disturbatori, la vita la condusse davanti ad un ulteriore incontro che, con parole chiare ed inequivocabili, le confermò tutto.
Aveva impiegato tutta la sua vita fin lì per arrivare a quelle parole ed era da tutta la sua vita fin lì che lei le cercava.
Finalmente lei e quelle parole si erano incontrate.
Tirò un sospiro di sollievo

mercoledì 24 agosto 2011

Il mio incontro con Woody



E’ una torrida mattina di fine agosto. Respiri e sudi. Sudi e respiri.
Chiudi la porta di casa e ti auguri di non arrivare in ufficio in forma liquida.
Apri il portone ed affronti rassegnata il muro di afa.
Sali in macchina, accendi lo stereo, vai.
Un paio di svolte e ti trovi davanti ad una strada chiusa; un enorme gonfiabile volteggia tra due palazzi.
Pensi che il caldo insopportabile stia spingendo qualcuno ad un gesto estremo. Domandi.
“No signorì, è Woody Allen che sta a girà un firm”.
Sul tuo viso, ne sei certa, si sta dipingendo un’espressione ebete.
Scendi dalla macchina e ringrazi l’universo.
Con timidezza ti avvicini al set.
Chiedi se lui arriverà, un tecnico ti risponde che è già lì.

Un gruppetto di persone si scioglie e compare lui, uno dei tuoi registi preferiti.
Lo guardi incredula. E’ come assistere alla materializzazione di un’immagine.
Non è normale uscire di casa ed incontrare Woody Allen. O forse sì.
Ti guardi intorno. Quella strada a te familiare è un via vai di gente affaccendata: macchinisti, addetti alla fotografia, al suono, al microfono. Vedi trasportare luci, alzare pannelli, spostare cineprese. Vedi le sedie in cui si siederanno attori e registi, i video su cui ricontrolleranno le scene.
Ma chi avrà deciso di portare il cinema dentro casa tua in un torrido giorno di fine agosto?
Ti senti una giapponese in preda ad un raptus fotografico.
Un tipo con cartellino e qualifica non ben specificata ti guarda divertito.
“ A signorì, certo se era Bradde Pitte era mejo!”
Ci pensi un attimo, devi ammettere che forse ha ragione, però…
“ Beh certo, ma è Woody Allen e io l’adoro”.
Lo dici convinta, ma il tipo ti guarda scettico.
L’ufficio ti sta aspettando, ma al diavolo, questo momento non ricapiterà!
Un uomo con ricetrasmittente t’invita carinamente ad avvicinarti. Lo guardi stupita; in genere gli uomini della sicurezza tirano su un’invalicabile “cortina di ferro”.
“Venga signorì, venga che il regista è uno tranquillo”.
Sorridi. I romani sono veramente fantastici e chiunque ti definisca signorina lo adori a prescindere. Prendi coraggio e muovi qualche passo.
Lui è a pochi metri da te, indossa un cappello da pescatore, sul naso ha i famosi occhiali, nella tasca dei pantaloni qualche foglio del copione arrotolato.
Muovi altri passi fissandolo. Lui distoglie lo sguardo dal suo interlocutore e per qualche istante i vostri occhi si guardano. In quel preciso istante sa che tu esisti. Lo sai che è un pensiero idiota, ma è sempre quell’idea che ti intriga di quante possibilità c’erano nella vita ecc eccc…
Sei perfettamente cosciente che tra qualche minuto avrà cancellato te e quegli istanti. Ti ripeti che probabilmente ti guardava pensando, con la sua implacabile ironia, che una donna adulta che lo fissa sorridendo in modo beota avrebbe bisogno di un sostegno psicologico. Sai tutto, ma te ne freghi. Anzi, sei felice del tuo abbigliamento, di essere ben pettinata e degnamente truccata. Non sei stravolta o sciatta nel momento sbagliato, davanti all’uomo giusto.
Scioccamente ti compiaci, tanto ormai sei dentro ad un film nel film. Da buona romana in un batter d’occhio sei diventata regista ed interprete di una pellicola che vedi solo tu. Ma ancora una volta: chissenefrega! Anche questa è vita.
Intorno a te continua a muoversi il mondo del cinematografo con il suo gergo e delle battute che andrebbero immortalate; un cameo nel cameo. Un tecnico canticchia “Malafemmina”.
No, questo non è un giorno normale, è cinema irreale, ma è tutto dannatamente perfetto.

martedì 2 agosto 2011

Ma lui, chi era?




Ma allora chi era quell'uomo?
Già, chi era?
La nuova risposta rivoluzionava tutto.
Tutto da rileggere.
Tutto da riscrivere.
Brutta storia la presunzione, si disse. Gran brutta storia.
Ma forse l'errore era parte del racconto, dell'insegnamento.
Però le bruciava ed era per quello, per fugare l’infimo dubbio, che avrebbe voluto prendere il telefono e chiedergli: “Ma tu cosa hai imparato?”
Ma se lui, a differenza sua, avesse risposto:“ Nulla”.
Ecco, lei a quel punto cosa avrebbe fatto?
Una risposta di tal genere avrebbe confermato una certezza assai scomoda.
Avrebbe significato che in tutta quella storia lei non era mai stata, come aveva sempre orgogliosamente ritenuto, la sua guida, bensì colei che era stata condotta verso la conoscenza.
I ruoli si sarebbero capovolti e lei si sarebbe ritrovata a testa in giù, con un forte senso di nausea e la quasi certezza di vomitare.
Se quella fosse stata la risposta.
Fermò il pensiero.
Stava cadendo nel medesimo errore.
Quella era una delle mille vite, una delle mille possibili storie.
Solo ciò che aveva scoperto era il punto determinate: chi sceglie di oltrepassare ciò che appare, accede ad illimitate possibilità.
Si può saltare da un punto all’altro, entrare ed uscire da una qualunque ambientazione, trasformarsi in ciò che si vuole, oppure chiedere aiuto ad una persona, un elemento, una situazione. E’ irrilevante il percorso che si sceglie.
Lei aveva deciso di intraprendere un viaggio e lui si era trasformato, di volta in volta, in ciò che a lei serviva.
Chi fosse in realtà?
Non l’avrebbe mai saputo.

lunedì 25 luglio 2011

Di che colore è l'amore?



Immergersi nell’amore.
Di che colore è l’amore?
Oh sì colori! L’amore è fatto di colori. E di luce.
E di stanze in cui sdraiarsi.
Rotolandosi fuggire.
Luce che filtra. Acceca. Il buio.
Ma dove sta l’amore?
In quale punto del corpo?
Nella pancia quando non sai saziarti.
O negli occhi perché non smetteresti mai di guardarlo.
O forse nei piedi, sì nei piedi quando vorresti scacciarlo.
Lontano, lontano…
Bruciano le ferite nel sale.
Il sale delle lacrime.
Gli occhi sembrano contenere un oceano di lacrime.
Ma lo sguardo cura.
E ci sono le labbra.
Che belle sono le labbra!
Si schiudono come usci segreti.
Ma dimmi, dimmi di che cosa è fatto l’amore?
E’ il tuo corpo?
O il mio, se è dentro di me che lo sento?
Oppure è come dicono i poeti
In ogni elemento
E’ fantasia che si condensa in sentimenti confusi.
Imprecisi e volubili come le nuvole.
Per questo gira il mondo
Perché è capace di volare e trasformarsi
Bagna
Nutre
Vola
Cade
Nasce
Muore
Rinasce
E’ come pioggia dagli infiniti suoni.
Dunque è musica
Musica che danza
Però io non so se esiste davvero…
Non ha continuità!
Ed allora è forse questo?
Capriole di genialità?
E come può qualcuno non amare?
Come è possibile vivere senza conoscere il dolore della felicità?

martedì 19 luglio 2011

Abbandonarmi



E dopo molti se ed infiniti mah, dopo i boh ed i non so, i forse ed i chissà ho pensato che…
Basta sterrati polverosi, faticosi sentieri, impervie salite.
Ammetto che istintivamente cadrei nell’abituale solco: afferrare il senso, decidere i tempi, le azioni, i come ed i perché. Controllare è debolezza, è vizio umano dal quale è difficile distaccarsi.
Ma qualocosa di nuovo mi tenta.
Arrendermi.
Arrendermi al non sapere, al non capire, al lasciare andare.
Sarà pigrizia o saggezza?
La vita è mistero dal suo inizio. Una combinazione di cellule ha prodotto me, una minima variazione avrebbe creato altro. Cosa pretendo di voler svelare io?
La vita scorre dentro di me, intorno a me, va.
E non mi dispiace l’idea di starci dentro senza chiedermi continuamente chi la porta fin qui, o dove mi condurrà.
Tutto sommato posso procedere lenta e godermela. Lasciarmi attraversare, accoglierla, assecondarla. Osservare gli altri interpreti, le passioni, le fatiche, i viaggi ed i ritorni.
Abbandonarmi.
Sto calcando la scena e sono tra le poltrone. Non è poco per un solo spettacolo, perché voler conoscere a tutti i costi l’intero copione?
Un foglio al giorno, una battuta via l’altra cercando di essere dentro all’oggi, nella scena attuale.
Già questo potrebbe bastare.
Non posso controllare il mondo, quello che sarà, i tuoi pensieri, i miei pensieri.
Sarò diversa domani? E tu chi sarai?
Intanto siamo qui e non so perché, ma improvvisamente mi sembra uno sforzo improbo voler anticipare ciò che il tempo prima o poi potrà spiegarmi.
Abbandonarmi…adorabile sensazione!
Ognuno interpreta il proprio ruolo ed il fato mescola tutto a suo piacimento. Ci concede. Ci depenna. Ci rimette dentro quando eravamo certi di aver saltato un tempo, perso un treno, sbagliato l’entrata, quasi sempre l’uscita.
Inutile corre troppo avanti.
Stolto guardare sempre indietro.
Assurdo pensare di poter decidere il montaggio di uno spettacolo del quale non conosciamo la scena successiva.
Esserci può bastare.

Nella foto l'opera " La vita" di Marcello Dudovich

sabato 16 luglio 2011

L'isola che c'è

Un gabbiano vola sopra alla tua testa. Quanti ne hai visti volare?
Quanti mari da cartolina?
Ma l’amore per un luogo è come quello per un uomo: non bastano i suoi lineamenti per farti bruciare l’anima.
Non conta la perfezione. Conta ciò che ha in se, quanto sia capace di scavalcare tutto ed arrivarti dentro, mischiarsi a te.
L’amore è questione di energie, di luce, di sensazioni inspiegabili.
Una piccola porzione di terra e sassi. Piante basse, forti, tenaci. Fiori che profumano di spezie.
Sole ed acqua salata.
Potrebbe essere un isolotto quasi disabitato del nord del mondo: semplice, brullo, spesso maltrattato dal vento. Ma è un’isola del Peloponneso.
Se scivoli oltre le colline la sabbia è soffice, il mare blu, turchese, verde, celeste. Le poche abitazioni sono bianche con le porte blu.
Parla una lingua antica. Parla d’invasori.
Dipende da dove lo guardi questo luogo, come lo guardi.
E’ terra estrema. E’ paradiso.
Era la casa dei cervi rossi della Dea Diana. Poi le sue baie divennero rifugio per i pirati.
Amo ciò che mi confonde. Il molto in un'unica anima.
A volte occorre molto tempo per incontrare ciò che amerai per il resto della vita.
Non importa.
L’essenziale è aver scoperto che i sogni non sono solo fantasia. Esistono. E da qualche parte ci aspettano.

Elafonissos…

lunedì 6 giugno 2011

Ciò di cui aveva bisogno



Lei sapeva quello di cui aveva bisogno.
Non conosceva molte cose, ma altre le conosceva.
Sapeva che doveva mescolare ed ascoltare la pioggia.
Camminare a piedi nudi e sentire il suolo che calpestava.
Sapeva che la conoscenza è un cammino ed altre donne prima di lei avevano già percorso un tratto di strada. Ora toccava a lei, ma non doveva scoraggiarsi, le Grandi Madri e l’intero Universo l’avrebbero guidata.
Doveva solo zittire tutto il vociare confuso del vivere ed ascoltare.
Tu sai già tutto quello che serve -l e avevano detto le grandi madri – segui le indicazioni e non sbaglierai.
Ma a volte lei era ancora insicura, quasi stupita di essere arrivata fin lì.
Solo qualche anno prima le sarebbe sembrata un’utopia. Lei che arrancava dietro alla quotidiana vita non afferrando mai completamente il senso di ciò che le accadeva.
Ma un giorno il velo si era alzato, un respiro più forte dell’Universo le aveva concesso di vedere “oltre”. Pochissimi istanti….sufficienti, più che sufficienti!
Tutto il resto era venuto da se, non facilmente ma ineluttabilmente. Quando il velo della comprensione si apre il cammino diviene accessibile, si sa dove poggiare i piedi, posare gli occhi, acuire l’ascolto, cercare le risposte.
Ed era stato così che lentamente aveva iniziato ad ampliare il suo modo di osservare e percepire ciò che la circondava, cogliendo la successione degli eventi, la logicità nell’apparente non senso, la disarmonia dei comportamenti umani, la saggezza della vita che è ovunque.
Qualcosa poi arrivava sempre ad aiutarla e lei aveva imparato ad essere attenta, molto attenta.
Era per questo che ora sapeva cosa fare.
Sapeva che aveva bisogno di affondare le dita nella ricchezza semplice della terra.
Di lasciarsi guidare dal proprio istinto liberando la creatività.
Sapeva che bastava affidarsi.
Mescolando, ascoltando, sentendo avrebbe trovato le risposte.
L’intero universo era lì per aiutarla. Le grandi madri erano la memoria. La sua voglia di esplorare l’energia di cui aveva bisogno.
Doveva solo zittire tutto il vociare confuso del vivere ed ascoltare

Nella foto l'opera "La terra" di D'Arja

martedì 31 maggio 2011

Ha vinto la dignità, la nostra dignità


Ho la sensazione di essere uscita da una guerra. Certo, non una guerra come quella che hanno vissuto i miei genitori, fatta di bombe e fame, deportazioni e morti.
Una guerra di ben altro tipo s’intende, ma non meno distruttiva, non meno pericolosa.
La nostra democrazia se l’è vista brutta, ma proprio brutta brutta!
Vent’anni fa - strana coincidenza temporale - qualcuno ha deciso di conquistare e dominare il nostro territorio e le nostre menti…e c’è riuscito!
Con un disegno progettuale ben congeniato, si è da prima insinuato nei cervelli e poi comodamente insediato al comando della nostra nazione.
Quella di Berlusconi è stata una forma diversamente applicata di occupazione che, disgraziatamente per noi, ha creato una nuova e mostruosa “fisionomia Italia”.
Con lentezza ma costanza il suo modo di pensare e di agire si è diffuso in modo epidemico lungo tutta la penisola, contagiando con l’illusione del successo facile e del “Famo come ce pare”, milioni e milioni di persone.
E’ stato un processo lento, in parte agito in modo sotterraneo e perciò invisibile. E’ stata una malattia subdola che giorno dopo giorno ha debilitato la nostra capacità di analisi, minato la lungimiranza progettuale del nostro futuro riducendoci ad un’invalidante immobilità celebrale che ha reso molti di noi stupidi o pazzi.
Il presente ed il futuro sono una cosa seria, non s’improvvisano. O meglio, non sempre e non in tutto possono essere improvvisati. Ed invece l’obiettivo di Mr. B era quello di convincerci del contrario. Politici azzeccagarbugli, giornalisti servili, una compagnia grottesca di personaggi d’avanspettacolo, molti dei quali senza titoli né capacità, però scrupolosamente selezionati, che servivano a dar corpo all’illusione. Come se il popolo italiano fosse stato catapultato dentro ad un in immenso “The Truman show” è stata iscenata una farsa per convincerci che non serve studiare, è sciocco essere onesti, non bisogna essere. E’ fondamentale invece far credere di essere e possedere, ossessivamente possedere: soldi, fama, copertine, amanti e, aspetto basilare, pur di ottenerli bisogna essere pronti a qualunque bassezza. La vita, per questa gente, sembra racchiusa tutta lì. Ed in molti si sono ritrovati a sbavare davanti a questo malinconico spettacolo. Imbambolati dalla magia del prestigiatore, hanno sperato che la polverina miracolosa si depositasse anche sulle loro teste.
Ma come la favola di Pinocchio insegna, la vita è fatta di ben altro e quello che ci illude spesso ci delude. Ciò che si costruisce con un niente con un niente prima o poi crolla. E ritrovarsi sotto le macerie è stato un bel trauma.
Di nuovo abbiamo dovuto reclinare la testa, umiliati.
Miglia e miglia di disoccupati, milioni di nuovi poveri, milioni di giovani e meno giovani senza futuro, senza possibilità. Una scuola denigrata, infamata, svuotata della propria importanza. La ricerca azzerata, la cultura immobilizzata. L’uguaglianza beffeggiata. Le nostre ingenue speranze deluse e ridicolizzate. Non era per noi quel sogno, noi eravamo lo strumento del suo/ loro sogno.
Ma, nella vita fortunatamente ci sono sempre un sacco di ma, un popolo può rimbecillirsi anche per un tempo che sembra infinito, ma prima o poi si sveglia dall’incantesimo e si ribella. Ecco, credo che ieri l’Italia si sia ribellata urlando il suo basta.
Basta all’arroganza, alla maleducazione, alla sopraffazione, alla volgarità, alla rozzezza, all’imbecillità.
Basta!
Vogliamo tornare a volare. Vogliamo tornare alla limpida nobiltà delle menti eccelse che hanno scritto la nostra costituzione. Vogliamo, sì vogliamo e pretendiamo di riprenderci il nostro futuro. Vogliamo e pretendiamo dei politici seri, preparati, onesti e colti. Sì colti, perché senza cultura rimane l’ignoranza e d’ignoranza si muore. Vogliamo un sogno vero, fatto di possibilità vere perché costruite sulla solidità dello studio, dell’impegno, delle intelligenze, sulla nostra meravigliosa creatività.
Vogliamo tornare ad essere orgogliosi di essere, di essere anche italiani e non vergognarci più.
Ieri è stata davvero una gran bella giornata, perché l’Italia ha capito che c’era un’unica cosa da fare: riprendersi la dignità.
Ed è la dignità ad aver vinto, la nostra dignità.

martedì 24 maggio 2011

Come se...



Sfoglio le pagine dei miei pensieri e ritrovo me, tante me, intatte.
I miei scritti sono uno scrigno in cui adoro rovistare. Un’ulteriore possibilità per capire e ritrovare ciò che ancora sono o non sono più.
E poi ci sono i ricordi, quelli non scritti, quelli impressi unicamente nella memoria.
Una memoria che vi partecipa con tutti i sensi, riproducendo spezzoni vividi ed immutabili.
I ricordi sono attimi di vita cristallizzata, ma sono magici. In qualunque momento io lo desideri posso spegnere il presente e volarci dentro, rivivendoli con la stessa intensità, con indistinguibile precisione. Posso rientrare in uno specifico istante, in un luogo definito, ritrovando le persone che erano presenti, ferme in una determinata età, contornate dagli stessi oggetti, il tutto illuminato da quella particolare luce.
Tutto può tornare ad essere, come fosse un film che riparte dal preciso istante che decido di scegliere.
Ma cosa vuol dire questo?
Se il passato è un’immagine in cui posso rientrare ogni volta che voglio, vuol dire che quel ricordo è ancora reale, esiste in un luogo non luogo, nella mia mente, od in quella dimensione indefinibile che è l’anima.
E se ogni attimo del passato è ancora lì, pronto ad essere rivissuto, allora in qualche altro luogo non luogo esistono altrettanti attimi, e contesti, e persone ed accadimenti che potrebbero verificarsi e dunque in qualche modo già esistere, sono realtà, anche se non li ho già vissuti.
Sono la potenzialità ancora inespressa di ciò che potrei essere, o che farò, che spero vivrò.
Ed allora come interpretare le immagini che ogni tanto attraversano la mia mente proponendo scenari? Cosa sono quelle parole che penso di poter pronunciare, che a volte immagino di poter ascoltare? Chi sono i volti, in alcuni casi ben definiti, che s’inseriscono nelle mie fantasie?
Cosa può significare, od essere realmente, quello che la mia mente a volte proietta davanti all’interiorità del mio sguardo?
Potrebbe non essere solo “pura fantasia”, ma bensì squarci, spezzoni di un “possibile” ancora inespresso.
In più contesti si sostiene che non esiste una distinzione tra passato, presente e futuro. Tutto potrebbe essere mescolato nel mare cosmico che ci circonda.
Vediamo la luce di una stella che ormai è morta da millenni eppure per noi esiste, è davanti al nostro sguardo, e brilla, vera e splendida.
Come quel tuffo al cuore che sento netto ed immutato ogni qualvolta ripenso al volto di chi ho amato. O il brivido di beatitudine che corre sulla mia pelle quando rivivo le carezze insostituibili di mia madre. Dov’è tutto ciò?
I miei sentimenti rispetto a milioni di attimi sono ancora lì, perfetti ed identici, come se io fossi ancora la persona di allora, nonostante non lo sia più. Posso rivedermi, posso proiettarmi in ciò che potrei essere. E’ come se intorno a me e dentro di me fosse possibile contenere tutto. Come se io fossi una particella capace di riprodurre nell’infinitesimale la grandiosità dell’infinto.
Come se...

mercoledì 18 maggio 2011

Il contatto dell'Anima

Lei gli si avvicinò guardandolo con i suoi grandi occhi.
In silenzio si fermò ad osservarlo.
Il suo sguardo viaggiava in una dimensione che non si curava né del tempo né dello spazio.
Era pura armonia di mente ed anima.
Lui l’osservava senza comprendere.
Gli occhi di lei avanzavano veloci, spostando tutto ciò che appariva loro inutile.
Sembravano attirati da un punto preciso.
Ad un tratto lo sguardo parve arrestarsi, rimanendo immobile davanti a qualcosa d’invisibile.
Lei sorrise quieta.
Con lentezza distese il braccio verso di lui e con la mano toccò la stoffa del suo maglione.
Lui avvertì una spilla di calore nel petto.
La mano di lei ed il suo sorriso ancora immobili su di lui.
La spilla diventò un chiodo e poi il calore divenne sempre più forte ed il chiodo si sciolse scomparendo.
Il cuore iniziò a scaldarsi
Lei era ancora davanti a lui, ferma con il suo sorriso e la mano posato sul suo petto.
Il cuore ora era caldo ed il calore era talmente intenso che avrebbe potuto sciogliersi come il chiodo che l’aveva fissato ad un'innaturale immobilità.
Lui sentì il primo battito, il primo di quello strano battere.
La percezione del calore sempre più intensa e la contrazione di quel primo battito lo stordirono.
Una sensazione di abbandono, poi una perdita di coscienza simile ad un orgasmo.
Un piacere profondo, assoluto, sconosciuto.
Un cuore caldo, incandescente, lui non l’aveva mai avuto.
Si emozionò con l’autenticità di un bambino.
Lacrime pure scivolarono dai suoi occhi.
Esisteva quel che non credeva possibile.
Piegò la testa verso il petto.
Il suo cuore incandescente pulsava.
Indietreggiò frastornato staccandosi dal contatto con gli occhi di lei e della sua mano.
Una scossa gli percorse il corpo e lentamente sentì l’incandescenza diminuire e poi spegnersi.
Si voltò. Lei non c’era più.
Il volto trasfigurato dal dolore.
Lui ora sapeva. Aveva provato. Ricordava l’incantesimo di quella sensazione.
Come un animale affamato, un pazzo preda di una visione, un bambino abbandonato iniziò a girare per il mondo.
Fissò mille e mille occhi. Posò sul petto mille e mille mani. Urlò, sperò, disperatamente cercò di ritrovare quel contatto, la scintilla che aveva prodotto il calore nel suo cuore, la beatitudine di quei brevi istanti. Ma non vi riuscì.
Aveva vagato inutilmente, cercando la cosa sbagliata.
Non era il contatto fisico ma quello dell’anima a creare la magia

domenica 15 maggio 2011

Correnti


Era una questione di correnti!
Un giorno, anzi una mattina – le idee migliori, quelle più potenti arrivavano sempre insieme al sole - le aveva visualizzate. Aveva capito che c’era un infinito movimento di fiumi, scie, strade, flutti che si muoveva costantemente intorno a lei.
Lei viveva, fluttuava , in una marea cosmica dove ogni cosa è possibile; la scoperta era recente, recentissima.
Prima di quella illuminazione era vissuta senza vederle - le correnti, i fiumi, le scie, o quelle meravigliose strade veloci che ti possono condurre dove vuoi con minima fatica - scivolandoci dentro, convinta di arrivare a comprendere solo grazie ad una profondo ragionare.
Ed invece quella mattina insieme al sole, forse grazie al sole, tutte le correnti, le scie, i fiumi, le strade, le onde pur rimanendo immutata evanescenza, si erano materializzate intorno a lei. Un po’ come quando il sole illumina l’aria con un raggio di luce più intenso e magicamente migliaia d’insetti e granelli di polvere diventano visibili: c’erano anche prima, ma era impossibile vederli. Ecco, era successa esattamente la stessa cosa: un raggio di consapevolezza aveva illuminato le sue percezioni ed ora lei sapeva che poteva scivolare in una qualunque di quelle scie viaggiando oltre il normalmente percepito.
Bastava chiudere gli occhi e poi saltare al volo nel fiume colorato del tutto è possibile.
Ed era stato seguendo una di quelle correnti, un vento profumato che l’aveva fatta ondeggiare quando aveva pensato "ovunque” che dopo pochi giorni, lasciandosi trasportare da un’onda piena di musica aveva visto quella danza.
Un’accelerazione violenta del cuore le aveva indicato che quella era una realtà, una realtà che esisteva già in qualche luogo del mare cosmico.
Lei doveva solo continuare a danzare.
Tutto il resto, era solo questione di correnti.

martedì 10 maggio 2011

Mattino presto

Cammino lungo una linea irregolare
seguendo un confine inesistente.

Il sole sale caldo ad est.

Nel blu i pescherecci avanzano lenti

Schiuma bianca li precede
Li segue.

Sabbia e mare si lambiscono
come amanti instancabili.

Cammino verso sud.

Tutto è definito
Tutto si mescola

Ali di mondo intorno a me

Attraversare mi piace!

lunedì 2 maggio 2011

Tu chiamala se vuoi..Fortuna...




Nessuno è nato sotto una cattiva stella; ci sono semmai uomini che guardano male il cielo.
Dalai Lama

Cosa vuol dire essere fortunati?
Quasi sempre ci rispondiamo che essere fortunati è una condizione del vivere che è oltrepassa la nostra volontà.
“Fortuna era una divinità antica, forse precedente alla fondazione di Roma” riporta Wikipedia. Una divinità generalmente rappresentata con una benda sugli occhi, anche se oltre a questa descrizione nella storia esistono diverse interpretazioni. Ma rimaniamo nella più comune: la dea bendata. Il solo fatto di averla pensata una divinità induce a pensare che l’essere umano abbia sempre percepito la buona sorte come un evento esterno a sè, superiore a sè e poiché bendata praticamente inconsapevole!

Ma è veramente questa la sola interpretazione?

Noi esseri umani, a volte, abbiamo la necessità di semplificare ciò che non comprendiamo o che non abbiamo voglia di approfondire.
L’idea di una divinità che vaga per il mondo bendata ed inconsapevole ha un suo fascino e ci risolve una moltitudine di problemi, uno tra tutti: se una cosa va male non è colpa mia!
E questo, diciamocelo, è un gran sollievo. Qualcuno o qualcosa di superiore ha deciso per noi.
In pratica, sempre secondo me, per alcuni aspetti della nostra vita continuiamo a ritenerci bambini indifesi e, quel che peggio, un po’ incapaci.
Brutta storia, brutta sensazione. Non abbiamo voce, non abbiamo possibilità, siamo alla mercé di “altro oltre noi”. Brivido!
Ma è davvero così?

 Concerto del primo maggio. Decisione vado o non vado? Supero la pigrizia, la paura degli attentati, l’inevitabile casino che troverò. Vado. Arrivati il clima è festoso, il sole riscalda, la musica è strepitosa. Ballo, gioisco di quel che vivo e penso: “Ogni attimo di felicità è un dono, goditelo”.
Bene, questa è la premessa.
A seguire succederà che: in mezzo a mezzo milione di persone incontrerà mio cugino e la sua famiglia, il quale chiamerà una sua amica che ci dirà di raggiungerla. Lungo la strada troverò una discreta somma di denaro, la nostra amica ci porterà nel backstage del concerto dove gusteremo una simpatica cenetta e vivremo il concerto da vicino. I nostri figli, che ci avevano seguito sbuffando, si ritroveranno in una situazione privilegiata. Grande insegnamento per loro, bel momento di condivisione per tutti noi.
E per finire, tornando verso casa raccoglierò un portafoglio nel quale non ci sono soldi ma tanti documenti. La ragazza a cui li restituirò dopo una piccola ricerca, guarda il caso, è di una piccola località a cui evidentemente la mia vita è indissolubilmente legata…ma questa è un’altra storia e comunque compirò una buona azione che fa sempre bene.
E’ stato un giorno fortunato? Per come la vedo io sì, decisamente.
E se fossi rimasta a casa, tutto questo sarebbe accaduto?

Se davvero la fortuna è bendata e non sa dove si trova, né dove andrà forse, e dico forse, per incontrarla dovremmo essere noi ad uscire dalla porta di casa, alzare il telefono, dire una cosa, non dirla, compiere un’azione accettando disagi, incertezze, pericoli, fatica, delusioni, possibili sconfitte. Ma forse, sempre forse, solo così potremo andarle incontro...se lei non ci vede...
Quando a qualcuno capita qualcosa di buono, o vive una buona vita, siamo pronti a liquidare il tutto con un: “E’ una persona fortunata”.
Facile, conclusivo, superficiale. E vigliacchetto aggiungo io.
Tradotto potremmo leggerlo anche così: se a lui va bene a me non dipende dalle sue capacità e dalle mie incapacità, è oltre lui è oltre me, è solo fortunato.
Bene, io non la penso così e molti studi indicano che non è così. Le cose capitano a chi si mette nelle condizioni di farle capitare. Capitano a chi sorride e prova, a chi sa mettersi in gioco, a chi ha coraggio, a chi non rimanda tutto ad improbabili discese dal cielo, ma muove se stesso e va. Capitano, insomma, a chi va incontro alla vita e poi si vedrà.
Buona fortuna a tutti.

Se non ti aspetti l'imprevisto, non lo incontrerai.
Eraclito

mercoledì 20 aprile 2011

Scrivere sui tetti



Scrivere sui tetti come una gatta.
Il naso sale ad annusare la luna e poi ridiscende nel bagliore di un foglio.
E' tutto silenzio intorno a me. Solo uno sporadico vociare che sale dai vicoli o da qualche finestra lasciata aperta.
Null'altro.
Ci sono luoghi e momentii che sembrano non esistere negli orizzonti della mia vita, ma poi si materializzano così, improvvisamente, quando meno me l'aspetto, quando non li cerco. Ed allora chiudo gli occhi, respiro forte e poi li riapro, piano, per paura che la bellezza che sto vivendo ritorni tra la fantasia di una favola che pensavo non potesse essere reale

venerdì 15 aprile 2011

Il messaggio nella bottiglia



Oggi è un giorno semplice, un giorno banale ma non è vero, nessun giorno lo è.
Ferma contemplo il mare, il mare della vita, i suoi flussi, l’andare e venire che trascina via, porta, a volte restituisce.
Quante bottiglie ho lasciato andare sperando che un giorno tornassero da me con una risposta…
Quanti giorni a sbirciare il mare mentre la vita ti pungola, ti spinge, ti strattona verso e devi muoverti ed agire anche se non sai.
Però come fai a dire alla vita di aspettare? Non puoi, non si può.
Ed allora, anche se non smetti di sbirciare il mare, vivi.
Vivi e scegli ed affidarti al buon senso, a qualche buon consiglio, ma principalmente a te, a ciò che senti salire dalla pancia e divenire voce che ti guida. Anche quando quello che ti dice, dove ti porta sembra assurdo, spesso folle, di certo non sempre consono ed giudizi si fanno taglienti, a volte crudeli, le parole ingiuste perché non ti adegui, non ti omologhi. Perché scegli quel tuo sentire impalpabile che conosci eppure non vedi, che neanche tu vedi.
Ma a chi dai retta? Ad una voce? Al tuo istinto? Pazzia!
La strada è tortuosa, difficile, traballi, inciampi, a volte sbatti, ti fai male, ma la strada è quella e tu lo sai, lo senti, per lo più te lo auguri.
Gli altri parlano, le loro voci a volte ti confondono, però quella sottilissima voce interiore è imperiosa e vince su tutte. Lei sa, forse. Tu no, ti affidi, coraggiosamente le credi e continui ad amare, a camminare, a scegliere per te e poi non più solo per te. E tutto diventa ancora più difficile, le voci si moltiplicano, gli schemi ti risucchiano, ma tu ti aggrappi al tuo invisibile sentire e continui ad amare, a camminare, a scegliere per te e non solo per te e speri, profondamente speri che quella voce non stia sbagliando. Ma non puoi fare a meno di seguirla, quasi fosse un incantesimo. Ed ogni tanto sbirci il mare prima o poi, speri, qualcuno ti risponderà…

Ad aspettare davanti al mare quanti giorni? A volte anni.
Poi arriva un giorno semplice, banale ma lo sappiamo, nessuno giorno lo è. Il mare e quel giorno.
Una bottiglia sbatte addosso ai tuoi piedi, no, due bottiglie, le ha portate un’onda e non l’hai viste arrivare.
Le afferri veloce, non vuoi che la corrente le riporti via.
Le guardi col cuore che batte, batte forte. Delicatamente tiri fuori le risposte, prima una e poi l’altra. Sono risposte a domande antiche, lo capisci dalla carta. Hanno viaggiato per un tempo lungo, molto lungo.
Le leggi, le rileggi, guardi di nuovo il mare, ti siedi e lasci che le lacrime salgano dalla pancia, dal cuore, su su fino alle ciglia e poi oltre e di nuovo giù, libere fin dove vogliono: viso, collo seno, mani, adori quelle lacrime, il loro sapore.
Il corpo si scioglie dalla fatica del cammino, dal peso di tante parole, dal dolore delle inevitabili ferite. Percepisci uno sguardo, sollevi i tuoi occhi, incroci quelli del tuo istinto, quella vista che ha guidato il tuo insicuro incedere.
Aspettano.
Gli sorridi.
Non hai sbagliato…non ha sbagliato.

mercoledì 6 aprile 2011

Sguardo oltre la pelle


Corpi esposti senza pudore, piedi costretti su tacchi importabili che impediscono di camminare figurarsi di ballare. Volti acerbi o maturi truccati oltre misura. Uomini giovani e meno giovani che osservano con occhi rapaci le statuine traballanti che sfilano davanti a loro.
Era una discoteca e sembrava un’arena in cui si muovevano tori e toreri. Di certo, allargando lo sguardo, poteva rappresentare una metafora. In questo strano mondo ognuno di noi si muove nello spazio che lo circonda cercando di fare il proprio gioco. Ma qual è il gioco?
Le finalità che muovono ognuno di noi nei rapporti interpersonali potrebbero, per lo più, essere ridotte ad una formula elementare: essere amati/accettati.  E per raggiungere questo scopo le proviamo tutte, ma proprio tutte, cadendo però in un subdolo paradosso che inficia frequentemente il nostro intento:  il timore di svelare chi siamo, nella non remota possibilità di non sapere esattamente chi siamo. In questa epoca non proviamo, a differenza del passato, un grande pudore nell’esibire il nostro corpo, né ad offrirlo per un reciproco soddisfacimento sessuale. Abbattuti e risolti molti tabù ed impedimenti procreativi ci siamo lanciati in questa sensoriale esperienza con una certa ingordigia liberatoria. E’ stata una grande conquista che però non comporta una consequenziale conquista del soddisfacimento amoroso. Ed è qui che scatta il problema. Appagati i sensi rimane un'indefinta percezione d' insoddisfazione alla quale cerchiamo di porre rimedio usando ancora il corpo ed ancora i sensi. Ma quel languore, una specie di mancanza, non si placa perché in fondo ciò che desideriamo è essere amati ed il corpo rimane una barriera tra noi e l’altro. Per amare ed essere amati bisogna oltrepassare la pelle ed aver il coraggio di mostrare all’altro qualcosa di assai più intimo di un corpo nudo: dovremmo concedergli di guardare la nostra anima.
Rischiosissimo a detta dei più, inevitabile se dai sensi vogliamo approdare ai sentimenti. Ma soffriamo un’istintiva paura e tendiamo a celare l’intimità fragile di cui siamo proprietari. Siamo frenati dal timore di venir feriti, derubati, non compresi e ci nascondiamo.
Vorremmo che qualcuno intuisca le nostre meraviglie in modo divinatorio, giustificando i nostri limiti, comprendendo le nostre difficoltà, senza ovviamente esporre il nostro amabile cuore a dei veri rischi. L’altro dovrebbe compiere un atto di fede senza conoscerci, senza che gli sia veramente permesso d’entrare nella nostra interiorità. Vogliamo dedizione e non siamo disposti a dare fiducia.
Incredibile no?
E in attesa che questo miracolo si compia, quello che ci sembra più semplice e meno pericoloso fare è esporre il nostro corpo, abbellirlo, pitturarlo, scolpirlo concederlo. Sorprendentemente l’intimità fisica non c’impensierisce, quella dell’anima sì. Eppure è quella la vera meraviglia a cui ambiamo, l’incanto sublime, magari temporaneo di cui vorremmo essere protagonisti almeno una volta nella vita. Ma come possiamo riuscirvi se noi stessi abbiamo paura di sprofondare oltre la nostra pelle, quasi temessimo di scoprire chi siamo?
E questo è un ulteriore paradosso: pur guardandoci con diffidenza od insoddisfazione pretendiamo che l’altro ci guardi con meraviglioso incanto. Che strani tipi siamo…ci teniamo a galla, navighiamo a vista, senza immergerci mai o quasi mai né in noi né nell’altro.
Troppo faticoso mi si dice in genere ed è vero. Ma allora come pretendiamo di essere visti  celandoci, essere capiti senza perdere tempo a capirci. Come può l’altro comprenderci la dove anche per noi regna solo il caos? Imputiamo agli altri delle incapacità, una disattenzione che a volta ci appartiene.
Vaghiamo dunque per questo mondo offrendoci all’altro come potrebbe farlo un bambino pieno d’inconsapevolezze ed ingenuità. Cercando, allo stesso tempo, d’ingannarlo con un’immagine e non seducendolo per ciò che siamo. Vorremmo essere amati a prescindere non amandoci a prescindere.
Ci raccontiamo un sacco di storie, le proponiamo agli altri ma che paura andare a scoprire quali sono i nostri effettivi limiti, le zone d’ombra, gli inevitabili difetti. Però poi, a ben pensare, come possiamo scoprire le vette che potremmo raggiungere se non abbiamo la forza e l’ardire di esplorarci? La vita è un viaggio e non conoscersi e non permettere a nessuno di conoscerci profondamente rende, a mio parere, quasi inutile la gran fatica che comporta esistere.

venerdì 25 marzo 2011

Leggera



Sorvolare il mondo
Leggera
Guidata dal vento
e dal fuoco che divampa nel cuore
Nessuna meta
Nessuna fatica
Solo guidata dal vento
e dal fuoco che divampa nel cuore.

martedì 22 marzo 2011

venerdì 11 marzo 2011

Un cigno dai mille colori




Sono un cigno bianco. Sono un cigno nero. Sono un cigno dai mille colori.
Danzo per il mondo cantando la mia melodia.
A volte prediligo movimenti decisi, netti, veloci.
Altre volte quelli lenti, fluidi ed armonici.
So cantare la mia gioia, così come la mia disperazione.
So abbandonarmi alle passioni e sacrificare i miei desideri.
So tacere ed urlare.
Sono un cigno bianco, sono un cigno nero, sono un cigno dai mille colori.
So allargare le mie ali accogliendo con amore. So richiuderle per proteggermi il cuore.
Sono un cigno indisciplinato ed indipendente.
Sono un cigno riflessivo e saggio.
Posso nuotare tranquillo ed improvvisamente alzarmi in volo.
Sono un cigno bianco, sono un cigno nero, sono un cigno dai mille colori.
Offro i miei occhi al mondo e so nasconderli tra le piume celando il mio sguardo.
Non pensare mai di potermi rinchiudere in una sola anima, in un unico colore.
Non pensare mai di sapere chi sono, io come te sono un mistero inafferrabile.
Io come te sono…
Sono un cigno bianco, sono un cigno nero, sono un cigno dai mille colori.




Che cosa faresti se non avessi paura?

In ognuno di noi convivono, generalmente, due anime. Una luminosa, leggera, amabile. Un’altra piena di ombre, capace di scatenare i moti violenti dell’anima, pericolosa.
Nasciamo con questa dualità e con questa dualità moriremo. Vale per le donne così come per gli uomini.
Quali di queste due anime prevarrà, e se una delle due prevarrà, dipenderà dalla nostra indole e dalla nostra storia. Di certo il primeggiare dell’una sull’altra segnerà quel che saremo e gran parte di quello che avverrà nella nostra vita.
Ognuno di noi è però un essere molto più complesso, composto da un’infinita gradazione di sfumature. Dentro di noi non esiste solo il bianco ed il nero, quindi prima di arrivare all’estremo opposto della nostra essenza ci sono tanti noi, una scala di sentimenti e quindi pensieri e quindi  comportamenti. Ridurre l’essere umano a due sole tonalità è talmente ingiusto!
Questa semplificazione è utile unicamente allo sguardo sociale che è per lo più superficiale e conclusivo. Questa semplificazione è l’arma, l’accetta con cui lo sguardo sociale se ne va in giro. Lui va per le spicce, non si sofferma, non approfondisce e per questo spesso non è lungimirante. Si nutre e produce schemi elementari, distinzioni nette: buoni o cattivi, belli o brutti, intelligenti o stupidi, nemici ed amici ecc.
Allo sguardo sociale non interessa capire. Usa una quantità enorme di punti esclamativi.  Difficilmente concede il privilegio di un dubbio, il brivido speranzoso di una domanda.
Classifica, regola, decide. O di qua o di là, impossibile contemplare opzioni multiple.
Ed allora, generalmente, tutti noi decidiamo o veniamo spinti ad entrare in una delle due dimensioni: o cigno bianco o cigno nero. O parte nobile o maledetta. O costruttivi o distruttivi. O tendenzialmente amabili o tendenzialmente insopportabili. Però attenzione, una volta accettata quest’unica possibilità, uscire dalla scatole in cui ci hanno o ci siamo rinchiusi, sarà difficilissimo e se proveremo a farlo saremo osteggiati oltre ogni possibile comprensione: il buono non può ribellarsi, il cattivo non può redimersi. Se l’anima bianca s’impunterà, sbatterà i pugni, urlerà, o sconvolgerà anche una sola volta lo schema, lo sguardo sociale si leverà su di lei non comprendendo, non sforzandosi di farlo, ma prontamente si scandalizzerà e negativamente giudicherà. Sorte analoga toccherà alla cosiddetta anima nera. Chi sarà disposto a considerarla “altro” dopo essersi accomodato nella certezza della sua cattiva indole? Come credere che oltre il nero potremo sconvolgerci trovando un bianco abbagliante? Quanti si porranno lo scrupolo di un punto interrogativo?
Lo sguardo sociale è così spesso fermo nello stagno della propria crudele mediocrità…
D’altronde giudicare in modo approssimativo è più semplice che comprendere, non richiede fatica, né alcuna capacità, è alla portata di chiunque.
Ma chi sa solo definire vive un’evidente condizione d’insicurezza o di stupidità. Giudica per aiutarsi e stabilendo chi è l’altro come regolarsi. Finalità: il controllo.
L’indefinito invece è libertà, è tutto ed il suo contrario. L’indefinito è per chi ha coraggio e generosità. Per tutti gli altri è uno spazio troppo aperto in cui ci sente esposti e fragili e questo genera paura e la paura costruisce prigioni.
Prigioni mentali in cui lo sguardo si ferma addosso ai muri, incapace di qualunque immaginazione. E chi è prigioniero non può concedere libertà, perché qualora ne fosse capace la concederebbe prima che ad ogni altro a se stesso.


giovedì 3 marzo 2011

Un'immagine



La stanza era nascosta tra luce della luna e quella soffice delle grandi nuvole rosse.
Una pioggia gelata tintinnava a tratti contro i vetri, come a richiamare la sua attenzione.
Un vento apparentemente muto correva tra gli alberi, facendoli inchinare al suo passaggio.
Il cielo era un sipario instancabile che offriva e celava.
Al centro della sala una grande vasca di porcellana bianca, colma di acqua bollente ed essenza di violette.
Chopin accarezzava da un luogo lontano tasti d’ebano ed avorio.
Immersa nel liquido trasparente pelle bianca come luna, un corpo caldo di vapori.
Abbandonata, godeva il piacere della perfezione.
Dall’alto una mano invisibile amalgamava sapiente la miscela delle sensazioni.
Bianco, rosso, vento, pioggia, freddo.
Pelle, sangue, musica, vapore, caldo.
Dov’è la tempesta? Dov’è l’armonia?
Un piede sporge dall’acqua, le dita fremono nell’incontro con l’aria.
Sfiora il suo complice e poi risale, lento, ad accarezzare la gamba.
L’acqua gocciola indolente.
La mente si perde tra immaginazione e realtà.

domenica 27 febbraio 2011

Le parole raccontano di noi



Parole. Parole dette, parole ascoltate, parole sognate, parole urlate, parole scritte, cantante, disprezzate, amate, odiate, parole trattenute, parole intuite, parole celate, parole, miliardi di parole.

Le parole sono un potere di cui trascuriamo troppo spesso gli effetti. Le usiamo senza cura, quasi mai c’interessiamo della loro etimologia, le gettiamo via privandole della loro importanza, le pronunciamo senza riflettere sulla loro potenza. Siamo dei produttori presuntosi e superficiali, dei fruitori distratti. Credo che troppo spesso, nell’uso parlato che ne facciamo, non siamo in grado di apprezzare la bellezza. Una parola non è mai solo una parola. Una parola ha una storia, un significato antico, un viaggio fatto di terre e di popoli. Una parola ha una sua fisicità, è molto più di una semplice vibrazione. Una parola ha una sua corposità, un carattere formato non solo dalle lettere che la compongono. Una parola acquisisce, a volte, la fisionomia di chi la pronuncia, si contamina della sua anima. Può essere meravigliosa od infima dipenderà da quali labbra la pronunceranno. Quindi  non ha una sua personalità? Oh certo che ce l’ha! Ha una personalità talmente strutturata che può rendersi creta, illudendoci che potremo plasmarla come vorremmo. Ma la nostra è solo sciocca presunzione. Ogni parola è talmente certa del proprio significato che può rendersi apparentemente trasparente, o colorarsi, riempiersi oppure svuotarsi, esteriormente rimodellarsi, quasi scomparire per compiacere le nostre finalità senza perde la vera essenza di se. La parola sa di se molto più di quanto noi crediamo di conoscere di noi stessi. Una parola ci rivela e quasi mai ce ne accorgiamo. Usare un termine piuttosto che una altro lo riteniamo solo una scelta casuale, la dove voluto uno sbizzarrirci tra sinonimi, ma più frequentemente di quanto immaginiamo non è così. Quasi mai le parole si fanno usare da noi, tutt’altro, sono loro che ci beffeggiano mostrandoci proprio dove o quando avremmo voluto nasconderci od esaltarci. Ed allora accade che una frase, un singolo termine usato senza riflettere, o senza conoscerne il significato reale ci riveli, ad un ascolto attento, rendendoci  nudi nel nostro intimo pensiero, svelando il sentimento profondo che abbiamo tentato ingenuamente o subdolamente di celare. Forse dimentichiamo che le parole sono umane per nascita e si formano nella nostra mente, vibrano di ciò che proviamo. Possiamo tentare d’ingannare la nostra volontà, molto più complesso è riuscire a mascherare l’incoscio. Maneggiamole con cura quindi, la delicatezza e l’attenzione con cui le useremo racconterà di noi molto più di quanto vorremmo.