“ Il tempo sbatte stanco dall’albero maestro” dice Virginia Woolf in un suo romanzo, ed è esattamente lo scandire del tempo che io vorrei, ora, in questa parte nuova della mia vita
mentre la memoria, richiamata dalla bellezza evocativa dell’immagine, mi riporta lontano, a qualcosa di vissuto a cui non pensavo più, da tanto.
Le ore calde di un luglio dimenticato, la spiaggia grande, deserta e bianca, il mare vicino, azzurro quasi immobile ed io che non conosco il tempo. Nessun orologio, nessun segno irriverente del suo passaggio sul mio corpo. Le carni sode, le linee del viso compatte dai tratti ancora vagamente infantili, abbandonata sfioro con una mano i granelli di sabbia. Lontano una campana declama i suo rintocchi, io li ascolto passiva, senza attenzione per non sapere. Osservo ogni tanto le ombre sull’arenile, quella è la mia clessidra indicativa. Non ci sono minuti da rispettare ed il vento complice lo sa. Per questo disperde l’eco del religioso suono. Ed io mi ricongiungo al mare, allo sciabordio dolce della sua risacca. Non c’era altro allora a riempire i miei pensieri.
Sdraiata indugiavo, anticipando nella mente i passi che avrei mosso verso casa, percependo già il calore della sabbia che avrebbe avvolto i miei piedi inducendomi ad una veloce corsa fin sotto l’ombrosa pineta e lì un attimo di refrigerio, lo scricchiolio degli aghi di pino, il profumo della resina e le parole paterne, tante volte udite, che da sole sarebbero tornate come un comando memorizzato: “ Respira forte, respira che ti fa bene.” Ed io avrei respirato, forte, chiudendo gli occhi. Riaprendoli avrei rivolto un ultimo sguardo al mare ed avrei ripreso a camminare fino al sottopassaggio. Sul muro di sinistra avrei osservato i manifesti dei film in programmazione nell’arena. Uno pomeridiano per i bambini e poi l’altro, quello ambito della sera. Quindi avrei ridisceso gli scalini, sopra la mia testa le rotaie e forse il passaggio di un treno, il suo ferroso frastuono, lo spavento di un fischio improvviso. Appena gli occhi si fossero abituati al repentino cambio di luce avrei guardato le mattonelle rettangolari, con i rombi azzurri in rilievo. Così, per abitudine. E di nuovo altri scalini e fuori il sole con il piccolo albergo che si sarebbe mostrato lentamente, ad ogni gradino superato. A destra la fontana, secca, le panchine di pietra ricurva, non un passante, forse il sonno di qualche gatto e l’abbaiare quasi certo di un cane.
Null’altro. Almeno per venti, forse trenta passi. Poi la mia testa si sarebbe alzata, sempre allo stesso punto della via e gli occhi sarebbero corsi in alto verso la piccola terrazza. I capelli dorati di mia madre e poi quelli bruni di mio padre. Li avrei guardati, non vista almeno per qualche metro. Avrei spiato felice il loro comune affaccendarsi, i gesti amati che conoscevo. Mi stavano aspettando. Ed il mio cuore si sarebbe riempito di una gioia piena, che non ho più provato.
5 commenti:
Pineto,
sono riuscito anche a vederlo. E' stata una gita simpatica.
E' vero che alcuni luoghi richiamano ricordi e viceversa.
E dei luoghi assumono significati ben più profondi dell'esperienze o degli eventi accaduti.
Hai ragione, spesso è proprio così e mi piace l'interpretazione che hai dato del mio post ma, per volontà del fato, in questo piccolo luogo di vileggiatura ho vissuto momenti davvero speciali.
Bello Maria Cristina! E' bello perdersi in dolci ricordi, è bello vivere senza l'assillo del tempo... anch'io in un altro momento della mia vita ho avuto questa fortuna.
E' stata sorpresa e stupore trovare Pineto sul tuo blog. Nonostante io ormai viva quotidianamente quei luoghi, nel leggere la tua descrizione sono tornata inevitabilmente indietro nel tempo, quando come te, adolescente trascorrevo le mie estati a Pineto. Ricordi felici, spensierati hanno attraversato la mia mente. Grazie per avermi dato una nuova occasione per una dolce riflessione.
Pineto non poteva mancare, mi ha dato gioie incredibili ed un grande dolore ma io l'amerò per tutta la vita, con me è stato molto, molto generoso.
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