“ E tu…be’, hai un modo così chiaro e bello di presentare le cose, così cristallino che sembra tutto semplice e vero. Sei così pronta, così intelligente. Ma non mi fido della tua intelligenza. Tu crei uno schema meraviglioso, tutto è al suo posto, e sembra chiaro in un modo assolutamente convincente, troppo chiaro. E intanto, dove sei tu? Non sulla chiara superficie delle tue idee, no, tu ti sei già tuffata più a fondo, in regioni più oscure, così uno pensa che tu gli abbia dato tutti i tuoi pensieri, ma lo immagina soltanto che tu ti sia svuotata in quella chiarezza. Invece ci sono strati e strati – sei senza fondo, insondabile. La tua chiarezza è ingannevole. Sei la pesatrice che suscita in me più dubbi, più confusione, più turbamento.”
Queste le parole che Herry Miller rivolgeva in uno scritto ad Anais Nin, sua mante dell’epoca.
Parole che mi hanno condotto, non so perché verso una associazione ben precisa.
Come si può scendere a conoscere gli strati e strati di una persona?
Ho un’unica risposta: dandogli e dandosi tempo.
Il tempo che è divenuto il vero lusso della nostra moderna società, il tempo che corre, in fretta, troppo in fretta, e ci impedisce di fermarci a guardare, a capire, ad esplorare.
Crediamo di vivere pienamente anche se in realtà sorvoliamo il mare sfiorando solo le increspature.
La vita, quella vera, si muove al disotto di esse e noi la guardiamo appena, affondando solo di tanto in tanto la nostra testa, curiosi forse, ma poi non così coraggiosi per decidere di inabissarci nelle profondità, anche oscure e paurose dell’esistenza. Allora torniamo in superficie e riprendiamo la via.
Il mare in questo caso è come metafora dell’altro, delle persone che ci circondano o che ci capita d’incontrare ma alle quali spesso concediamo assai poco. Poco tempo, poca attenzione, poca disponibilità empatica, poco insomma, per poi lamentarci che gli altri non sono quello che noi vorremmo, meriteremmo, spereremmo. Ma noi, in fondo, cosa abbiamo concesso veramente di noi stessi, quanto siamo stati pronti a metterci in gioco, a mostrarci, a voler capire, vedere, quanto siamo stati disposti in realtà a rischiare. Rischiare il nostro tempo, i nostri sentimenti, una possibile delusione, un possibile sentimento, vero, autentico, coinvolgente che potrebbe farci perdere la bussola del nostro amorfo andare.
Ho conosciuto Polle e Paolo in un mio precedente incarico lavorativo. Una sede spersa nel nulla, un’infinità di ore da trascorre insieme, obbligati ad una convivenza spesso forzata, non sempre piacevole. Il giorno passava davanti ai nostri occhi, oltre i vetri delle finestre, mentre noi eravamo costretti a vederlo scivolar via senza averlo veramente vissuto, non come avremmo voluto almeno. Mattine, pranzi, pomeriggi, a volte addirittura sere e nottate insieme, senza avere un lavoro così pressante o coinvolgente da svolgere, e noi che lentamente ci avvicinavamo all’altro, più per ammazzarlo quel tempo che per viverlo. Con Polle abbiamo iniziato a parlarci sporadicamente, lui veniva nella mia stanza e chiacchieravamo di tutto un po’, e poi lentamente sempre più di noi, dei nostri pensieri. Paolo era, all’epoca, ancora un collega che volava sulla facile battuta, se una provocazione gettata e subito ritratta. Tuttavia sentivo che era molto più di quel che mostrava ed inizia a dirglielo.
Poi, improvviso il trasferimento ad un nuovo incarico, dovevo spostarmi dall’altra parte del corridoio e c’era una scrivania vuota nella stanza di Polle. Andai lì, un po’ timorosa di quello che sarebbe stata la convivenza con quel trentenne gentile e ribelle. La sintonia fu, invece, quasi immediata e noi ci accomodammo in una piacevole e stimolante convivenza. I nostri dialoghi si fecero frequenti, profondi fino a divenir intimi, schietti, fino a farci a volte male. Paolo nella stanza accanto si affacciava, buttava lì frasi e poi tornava a sedersi. Le sue visite divennero sempre più frequenti e nel mare di ore che si apriva ogni giorno davanti a noi, sempre più lunghe. I discorsi volano, s’inerpicavano, scendevano in rapide picchiate che ci lasciavano con il cuore che batteva, ma esploravano. Noi ci stavamo concedendo del tempo scambiandoci attenzione, ascolto, provando a comprendere l’altro, accettandolo. Trenta anni Polle, quaranta io, cinquanta Paolo. Tre generazioni, due uomini ed io che avrei potuto essere schiacciata dalla forza a volte brusca dei loro modi, dalle parole senza filtri che ormai non smettevano di usare. Eppure non è accaduto. Io ho evitato di soffermarmi sui fronzoli e loro hanno addolcito i toni. È stato magico. La nostra amicizia cresceva, si espandeva, si approfondiva.
Loro mi portavano ad esplorare l’orizzonte ed io li conducevo verso le profondità del io nel rispetto della propria individualità. Ognuno portava se stesso: la propria età, il proprio carattere, le proprie modalità di pensiero, il proprio essere maschi oppure femmina, nella completa rilassatezza di potersi mostrare. Abbiamo discusso, litigato furiosamente, abbiamo riso come pazzi, ci siamo sostenuti e consolati.
Il nostro trio è stato quello che ci ha permesso di resistere ad una dimensione lavorativa assurda. E’ stato come se quell’essere costretti a stare dentro un ufficio ci avesse spinto ad andare oltre, a stare dentro di noi, dentro l’altro. A ben pensarci, d’altronde, era l’unico viaggio che ci era permesso di compiere rimanendo fermi.
Non potete immaginare quante volte mi sono ritrovata a ringraziare quel tempo che avevo pensato perso.
Nessun commento:
Posta un commento