Un pò di me e la mia intervista con Maurizio Costanzo e più in giù in nuovi post

martedì 31 luglio 2007

Saluti prima delle vacanze

Cari amici,

sono in partenza. Il tempo delle agognate vacanze è finalmente giunto ed io vado a godermi un meritato riposo.

Mi attende un lungo viaggio che mi porterà in una terra diversa e molto lontana dalla nostra Italia.

Affronto questo viaggio con lo spirito di sempre, convinta che ogni luogo che visiterò qualunque sguardo incrocerò saprà donarmi un’emozione od un insegnamento.

Vi saluto quindi certa che al ritorno il mio bagaglio sarà arricchito dal nuovo che mi aspetta, laggiù, in terra d’Africa. Al mio ritorno vi racconterò quanto visto e provato attraverso i miei post ed aspetterò che anche voi mi regaliate quanto vissuto in questo scorcio d’estate.

Prima di lasciarvi ho pensato di riportare un piccolo Haiku.

La scopa

Appoggiata

In un altro posto

Ogni persona è diversa. Nessuno lascia la scopa nello stesso posto. Nulla si ripete.

Se la vita cambia non bisogna deprimersi per questo. Le cose accadono ed anche se questo al momento non sembra favorirci quello che verrà spesso si rivelerà per noi un bene.

Se per qualsiasi motivo si creano dei vuoti o dei drastici mutamenti non possiamo pensare di riempirli o ricrearli sui stessi presupposti. Non è possibile. Ma nel vuoto o nel cambiamento si apriranno nuove prospettive, si creerà lo spazio per tante altre cose belle. Non le stesse ma altre cose, forse addirittura migliori.

Questo piccolo scritto è per tutti coloro che hanno paura delle novità, perché è umano che il nuovo, lo sconosciuto spaventi. Ma, e qui parlo per esperienza personale, la novità è comunque vita, porta comunque emozioni e l'emozioni, belle o brutte ci fanno sentire e capire che esistiamo e di questo non possiamo che rallegrarci.

La mia estate romana

Roma e l’estate sono per me una mistura perfetta.

Io adoro Roma quando il sole canicolare picchia violento e luminosissimo sopra di lei.

Nelle ore più calde, quando il fisico resiste, io me ne vado in giro e la guardo. Ed osservandola ogni volta mi beo di appartenere ad una città così perfetta.

D’estate infatti Roma ritrova la propria fisionomia, la natività delle proprie origine e diviene di nuovo terra, natura e profumo agreste, rallentando i tempi grazie ad un’indolenza lussuosa che le appartiene e le concede di tralasciare, grazie al calore che l’avvolge, quell’aria leccata e fredda di una città ormai cosmopolita troppo veloce, insopportabilmente indifferente alla propria indole caratteriale. E si perché anche le città hanno un carattere, un proprio innato modo di parlare e muoversi.

Sarà forse perché ad agosto, divenendo rovente, obbliga i più ad una rapida dipartita verso terre più fresche e liberandosi dal troppo riacquista, almeno ai miei occhi, l’aspetto di un tempo lontano del quale ho ancora bisogno e nel quale amo cullarmi.

Le strade si svuotano, le macchine sono lampi sporadici e Lei finalmente riemerge splendida sulla punta delle sue mille epoche.

L’erba bruciacchiata dal sole rende improvvisamente brulli tutti i suoi scorci, la terra arsa sbuffa la sua fatica e soltanto fontane e fontanelle, i famosi nasoni, ristorano lo sguardo. Solo a tratti però, così, quasi casualmente, senza esagerare. Ed allora, refrigerata, alzo i miei occhi verso le cime degli alberi che sembrano abitati da tutti i grilli e le cicale del mondo, che, non so come facciano ma indifferenti all’arsura, intonano le loro melodie in un concerto continuo. Appagata torno allora ad abbassare il mio sguardo ed i marciapiedi grigi e duri non ci sono più. A loro posto, grazie ad una silenziosa e delicata pioggia di secchi ed abbrustoliti aghi di pino, si è formato un tappeto naturale che fa scricchiolare i miei passi.

I rumori si fanno dunque naturali, nulla stride, tutto è di nuovo armonico ed è questo il momento in cui i mattoni rossi dell’età imperiale riacquistano il loro vigore, e fermi e solenni, tra sterpi ed oleandri dai fiori appassiti, svettano maestosi a ricordare a tutti chi siamo e da dove proveniamo.

Ma pur nella sonnacchiosa calma non si ferma Roma, Roma respira, finalmente libera, dando voce ai suoi palazzi, alle storie che sembrano rincorrersi tra le sue vie, nei vicoli, nella sovrapposizione delle epoche, fermando i miei occhi in simultanee foto, ognuna diversa, singolarmente uniche.

Incrocio cani dormienti e gatti indolenti ed ogni tanto ricordo un tempo ed una città che se non fosse per l’estate non vedrei più.

martedì 24 luglio 2007

La pietra bianca

Un maestro teneva una ciotola in mano proprio quando un discepolo gli fece questa enigmatica domanda:

“ Maestro, come mettere la pietra bianca nell’immondizia?”

Il maestro lasciò cadere la ciotola per terra e, mentre rompeva in mille pezzi, rispose:

“ Così”.

Tratto da " Il dito e la Luna"
di Alejandro Jodorowsky

lunedì 23 luglio 2007

Resistenze umane

Se avessi indugiato, per nascere
fino a che mi fosse dato il permesso di vivere,
non sarei ancora al mondo,
come potete capire
se vedete come si danno da fare
quelli che, per apparire qualcosa,
negherebbero volentiri la mia esistenza.

Goethe

Ricky e Babbo Natale










Ieri riordinando la mia libreria mi sono trovata tra le mani un foglio a quadretti, tagliato e disegnato: era una lettera di mio figlio a Babbo Natale.

Con una serie di riferimenti sono riuscita a capire che risale ad alcuni anni fa e quindi all’epoca Riccardo aveva circa dieci anni.

Presumo che quello fu l’anno in cui le sue certezze sull’esistenza del suddetto personaggio natalizio erano ormai accantonate ma lui, non volendosi negare del tutto il sogno di un momento magico, prese comunque le sue precauzioni e scrisse saggiamente la seguente lettera, con tanto di disegni e intestazione.

Lettera

per

Babbo Natale

Caro Babbo Natale a differenza degli altri anni non ho molte richieste.

Innanzitutto vorrei il gioco di Herry Potter per il Game Boy Advence ( dettagliato), poi X-Pen Emotion, Cluedo, Twister, la tracolla di jens e Jenga.
(Segue suggerimento)

Guarda i cataloghi qui sotto.

(Serie di frecce disegnate e colorate ed allegato il catalogo di un noto negozio di giocattoli)

Poi scrupoloso un bel

P.S. vedi pag. 41 – 44 – 48 – 92 – 96 (e specifica del negozio dove poter trovare tutto il richiesto e per fornire un ulteriore indicazione il logo disegnato del suddetto negozio).

E’ vero che come si dice: “Ogni scarafone è bello a mamma sua” ma ditemi voi se, nella sua fanciullesca lettera, non trovate un qualcosa di geniale.

Non sapendo come porsi nel passaggio tra la credulità bambinesca ed una più disinibita concretezza lui ha trovato un suo compromesso.

Io alla sua età non avrei avuto la medesima furbizia, né la scaltrezza di sapermi destreggiare tra il credo o non credo. Ero molto più asciutta nelle mie posizioni, molto più babbea. Lui è figlio dei giochi elettronici e dell’opulenza. Cercai all’epoca di spiegargli che sette richieste in fondo “ sono molte” e non “poche” ma a parte ciò devo riconoscere che la sua organizzazione mentale mi stupì allora come ora.

A volte mi chiedo chi tra noi due è veramente ancora un po’ bambino.

giovedì 19 luglio 2007

Le Grandi Madri



Qualche tempo fa, girovagando tra i vari reparti della mia libreria preferita, curiosando tra pile e scaffali di volumi, mi capitò tra le mani un piccolo libro, con la copertina color sabbia ed un disegno nella sua parte inferiore che raffigurava i profili di quattro donne anziane. Di questi quattro profili due erano praticamente identici a quelli che un bravo disegnatore avrebbe potuto tracciare di mia madre e di mia nonna. Il titolo inoltre era il seguente: “ La danza delle grandi madri”.

Affascinata dalla stranezza dei fatti sono volata alla cassa ed assicuratami l’acquisto del tomo, sono corsa a casa per scoprirne il contenuto, non senza aspettative.

Ho iniziato a leggere, in ogni pagina, nel susseguirsi delle frasi, mi si svelava il senso di quell’incontro inaspettato. Quel libro parlava a me, o perlomeno parlava anche a me, e i due profili lo testimoniavano senza possibilità di smentita.

Per non tediarvi sorvolerò su alcuni punti troppo intimi e vi racconterò soltanto alcune riflessioni a cui questo piccolo grande libro mi ha condotto.

Oltre alle nostre madri naturali noi incontriamo lungo il cammino delle altre “ Grandi Madri” che svincolate da un vero ruolo genitoriale con molta più leggerezza, ma non con minore profondità, ci trasmetto valori, esperienze e molto spesso un affetto di cui non siamo totalmente consapevoli.

Incontrarle è una magia, la casualità soltanto un’apparenza. Gli incontri, quelli importanti, non sono mai casuali. Senza saperlo, seguendo il nostro inconscio, o se preferiamo il nostro intuito, che poi è più o meno la stessa cosa, noi li cerchiamo. L’empatia che nasce, nell’assenza di un legame di sangue, consente di volare leggero e non implica mai, o mai dovrebbe implicare, una forzatura del rapporto che per essere bello e piacevole ha bisogno di aria e spazio nel quale muoversi senza costrizioni, senza obblighi reciproci. Si decide di esserci come è possibile, secondo le disponibilità del momento.

Alcune di loro ci porgeranno la mano per aiutarci ad attraversare una strada difficile. Altre ci sosterranno per superare soltanto una piccola pozzanghera, ma non è la difficoltà del passaggio a determinare l’intensità di questi rapporti. La loro bellezza risiede nella luminosità che sanno sprigionare. La meraviglia è tutta nella consapevolezza che a nostra volta potremmo rendere ad altre donne i doni che abbiamo ricevuto, in un continuo scambio che non farà altro che impreziosire la nostra storia, fertilizzando il terreno di radici comuni che sono lì da secoli e che resistono proprio nello sforzo comune che ci unisce tutte. Con alcune di loro rideremo, con altre ci sentiremo libere di piangere, con altre ancora si verificherà uno scambio inconsapevole di cui ci renderemo conto soltanto nei ragionamenti del poi, quando, mettendo in fila lo svolgersi degli accadimenti, capiremo come quel piccolo gesto o l’intensità di una espressione hanno comunque impresso un segno decisivo al nostro andare avanti.

A queste persone, a tutte queste donne, a quelle che ci sono state, a quelle che arriveranno lungo la strada, a quelle che mi aiuteranno ed a quelle che sarò capace di sostenere a mia volta, va il mio grazie e la mia riconoscenza.

martedì 17 luglio 2007

Il mio piatto giallo


Io ho un piatto giallo, di plastica dura e spessa. In realtà è una piatto fondo ma non ha esattamente la forma di una scodella e per questo a casa mia è molto usato. Credo che abbia poco meno della mia età e quindi si aggira sui quaranta.

L’ho incontrato proprio ieri, in mezzo agli altri piatti, e non so perché vederlo lì, con il suo anomalo color zabaione un po’ vissuto, mi ha fatto sorridere e poi subito dopo provare una certa soddisfazione per averlo ancora con me. E si, perché non è proprio scontato avere ancora il piatto con cui mangiavi quando eri piccolo. O meglio, non è normale per i nostri tempi, lo era forse in altre epoche, fino a qualche decennio fa, quando il consumismo non si era ancora impadronito delle nostre vite e delle nostre presunte necessità. Oggi un oggetto come lui, senza un apparente valore commerciale, privo di un benché minimo retaggio storico, il quale volendo potrebbe configurargli almeno la preziosità del cimelio, devo dire ha proprio l’aria di un vero sopravvissuto. E per questo lo apprezzo ancora di più.

Che che ne possa sembrare infatti, il mio piatto giallo non è un piatto comune e la sua resistenza nella mia cucina e di conseguenza nella vita quotidiana della mia famiglia è lì a dimostralo.

Convinta di tutto ciò ho smesso di cercare altro e l’ho preso tra le mani, con una solennità che forse non gli avevo mai dedicato e sfiorandolo nella sua concava superficie ho lasciato alla sua forza evocatrice di riportarmi lontano. E lui, il mio piatto color zabaione ha esaudito, riconoscente, il mio desiderio ricordandomi tempi lontani, ambienti familiari diversi, altri odori, altre atmosfere ed io, a questo punto, ho capito di volergli bene perché, per quanto assurdo e estremamente nostalgico possa sembrare, anche lui è un pezzo della mia vita.


Piatto giallo e prosegue la riflessione


Fortunatamente, e non so bene perché, lui è sfuggito alla mania di disfacimento di cui sono stata vittima per un certo periodo della mia vita. Periodo in cui tutto quello che era “datato” mi appariva come un qualcosa di cui liberarmi il più in fretta possibile. All’epoca infatti, alle mie porte, bussava continuamente la modernità e c’erano altri oggetti a cui ambire ed ai quali trovare uno spazio degno nella mobilia della mia casa. Era l’inizio del consumismo che preannunciava quello a cui siamo arrivati, una fase in cui nulla riesce ad invecchiare, neanche gli essere umani, e qualora, per motivi inspiegabili, ciò avvenga per un qualsivoglia oggetto, a meno che non sia come si usa dire ufficialmente vintage , venendo fuori ci fa quasi vergognare.

La moda dunque si muove in qualunque campo con ritmi nevrotici, ingestibili. La novità è divenuta un momento, un lampo fugace che a volte non riusciamo neanche a focalizzare, tanto veloce è il suo passaggio all’orizzonte dei nostri occhi. Abiti, oggetti, automobili, telefonini e molte altre cose ancora, vivono un’esistenza da farfalle alla quale noi, stupidi, non sempre ci opponiamo. Il business tende ad imporre tutto: colori, tessuti, tagli, consistenze, linee e fogge che vengono pensate una stagione per l’altra od al massimo per gli oggetti da un anno all’altro. Questo ovviamente non è normale e di conseguenza crea una schizofrenia nei bisogni che ci rende spesso inquieti, inappagati e produce soprattutto nei più giovani e nelle fasce più esposte una dose di frustrazione sempre meno gestibile.

Ora, per esempio, è stagione di saldi ed andando in giro per negozi, soprattutto in alcuni grandi magazzini, si assiste, a ben guardare, ad uno dei più tristi riti di cui i poveri oggetti e noi, di conseguenza a loro, siamo assoggettati. Il capo d’inizio stagione, esposto fino ad alcuni giorni fa in faraonica pompa magna nelle vetrine centrali, tra luci strategiche e gli accessori più trendy, languisce ora, praticamente agonizzante, tra cataste di altri poveri abiti sgualciti e mal riposti. In un bagliore, non si sa bene chi, forse un guru bislacco e magari di suo mal vestito ha decretato la fine del suo splendore, il ruolo primario che avrebbe potuto conoscere tra le stampelle del nostro armadio. E noi, condizionati da questo snobismo, l’osserviamo con altri occhi, lo afferriamo senza riguardo rimarcando a nostra volta il suo disperso valore.

Ed ogni anno, ad ogni cambio di stagione mi ritrovo a pensare la stessa cosa: quante volte, anche a noi esseri umani viene riservata la stessa sorte, qualora, un cedimento del nostro fisico, della nostra capacità lavorativa od una diversa disponibilità del nostro tempo ci costringe ad un forzato o voluto pit stop? Lascio a voi la risposta, convinta che ognuno di noi almeno una volta si è fermato a pensarci su.

lunedì 16 luglio 2007

Riflettete gente...


Metti in disparte ogni altra norma e ricordati soltanto di queste poche; e inoltre che ognuno vive soltanto questo presente, ossia un istante, perchè il rimanente o l'ha già vissuto o è nell'incerto. Piccola cosa è quindi l'esistenza d'ognuno, piccola cosa il cantuccio della terra dove si vive; piccola cosa la rinomanza che lascerà dopo di sé, anche se essa abbia a durare lunghissimo tempo, tramandata da una generazione all'altra da omuncoli ben presto colti dalla morte, e che non solo non conoscono chi è già finito prima di loro, bensì nemmeno se stessi.

Tratto da Marco Aurelio
I Ricordi

venerdì 13 luglio 2007

Con le migliori intenzioni.



“ A volte con le migliori intenzioni si commettono i peggiori crimini”.

Lo sosteneva quel gran genio di Oscar Wilde ed io ho riscontrato molte volte l’esattezza di questo aforisma. L’ultima appena qualche giorno fa.

Per l'appunto, qualche giorno fa tornando a casa nel canicolare orario del dopo pranzo ho parcheggiato, come sempre, la mia macchina sotto casa.

Io abito in una strada in cui non esistono negozi. C’è il cancello che conduce alle palazzine del mio condominio e poco dopo l’ingresso di un convento. E basta.

Ad inizio via una fermata dell’autobus, e poi soltanto alberi e dossi scoscesi su cui crescono disordinatamente ma liberi vari tipi di piante.

Descritta così la mia via appare per quello che potrebbe essere e cioè un placido tratto di strada poco frequentata dal passaggio pedonale. Nel suo insieme è quindi una bella strada, grande, luminosa e verde. Peccato che l’essere poco frequentata l’esponga quotidianamente ai riti incivili della sporcizia: quella leggera, fatta di pagine di giornali volati fin lì da chissà dove, di cartacce anonime, volantini e volantoni pubblicitari depositati e mai letti. E poi a quella molto meno sopportabile creata da chi nell’assenza di costanti presenze umane si sente libero di trattarla come una discarica a cui affidare pezzi vecchi o non più funzionanti della propria vita o della propria casa.

Insomma, mentre con la macchina ormai ferma racimolavo oggetti e borse, nel rito finale della mia giornata lavorativa, mi accorgo che sedute sul muretto a pochi metri da me, due persone di colore, un uomo ed una donna, educatamente sistemati su vari strati di cartone stavano consumando un frugale pasto, in una sorta di pic nic metropolitano. La cosa avviene spesso in quel tratto di marciapiede perché le piante creano una piccola copertura dal sole ed il muretto invita ad una abbastanza comoda seduta. Fin qui quindi nulla di strano. Sono tranquilli e soprattutto mi è impossibile non essere solidale con chi è talmente disperato da doversi accontentare di quel desolato ed angusto spazio per rifocillarsi da una giornata ingrata.

Ieri quindi dopo aver rivolto loro il solito sguardo benevolo mi stavo avviando verso casa. Ad un tratto però l’uomo, sfogliando un giornale che aveva con se, ha visto scivolar via una pagina e dopo averla osservata cadere la lasciata strusciar via senza accennare minimamente al gesto di andarla a raccogliere.

Istintivamente mi sono fermata. Ho pensato che quella negligenza mi dava fastidio e nel contempo mi spiegava perché la via si riempisse così spesso di cartaccia ed ho valutato se fosse il caso di dire qualcosa oppure, spinta dalla solidarietà di cui sopra,lasciare che le mie parole scivolassero via nel silenzio delle mie considerazioni, insieme a quel solitario foglio di giornale.

Nel tentennamento ho inizialmente pensato di assecondare quest'ultimo pensiero, ma poi voltandomi verso il mio cancello ho notato quanta cartaccia, sporca ed ormai ingiallita imbrattasse il marciapiede ed un moto di rabbia ha avuto la meglio sul mio proposito di silenzio. Ed allora, non volendo infierire con un rimprovero troppo severo sulla vita disgraziata di quelle persone ho optato per un comportamento soft: ho raccolto io il foglio di giornale e passandogli accanto gli ho chiesto di prestare più attenzione la prossima volta. Mi sembrava un giusto compromesso, ed invece ho scatenato una reazione verbalmente violenta nell’uomo che ha iniziato immediatamente ad alzare la voce e giustificando quella sua disattenzione come una piccola cosa che non avevo nessun diritto di segnalargli, poiché da giorni si occupava diligentemente di tenere pulito quel tratto di strada. Io non lo sapevo, ed ho capito al volo che avevo urtato la sensibilità dignitosa di chi, anche nella difficoltà, cerca di mantenere una specie di pulizia per se e per la collettività da cui si sente comunque ed inevitabilmente emarginato.

Ho cercato di spiegargli che apprezzavo i suoi gesti e che non volevo rimproveralo ma soltanto richiamare la sua attenzione e che inoltre avevo raccolto io il suo foglio e quindi, non doveva agitarsi così. Ma non c’era verso, lui si arrabbiava sempre di più e la donna che era con lui cercava di calmarlo dicendogli frasi che non capivo e che dai gesti intuivo avessero la finalità di richiamare su di se la sua attenzione. Nell’impossibilità di calmarlo con le miei rassicurazioni verbali l’ho salutato e mi sono avviata verso la mia abitazione ma lui, mentre avevo già voltato le spalle, mi ha chiamato: “ Bush”. E questo non ho potuto tollerarlo. Proprio a me, persona da sempre fortemente contro i massimi poteri, attenta sostenitrice dei valori e della dignità di ogni singola persona e quindi ancor di più nei confronti di quelli bastonati dalla vita, no, non era possibile sentirmi apostrofare così.

Sono tornata indietro, mi sono riposizionata davanti a lui, ed in un crescendo vocale ho cercato come meglio potevo di spiegargli che si stava sbagliando, che non era proprio il caso di attaccarmi e via dicendo. In un attimo i ruoli si erano capovolti, ed io mi sono sentita oggetto delle stesse pregiudizievoli opinioni di chi parla ed addita per partito preso.

Nel momento in cui la discussione si andava amplificando da parte dell’uomo anche ad una violenza espressiva e gestuale che non era più possibile gestire mi sono voltata di nuovo, e finalmente mi sono avviata verso casa.

Lungo la strada ho pensato a come fosse difficile comprendersi senza inciampare continuamente in un ormai cronicizzato preconcetto e che se quello ne era solamente il minimo ed in fondo stupido esempio, figuriamoci cosa accade in ogni persona, qualunque sia la sua etnia quando ci si scontra su argomenti ben più seri. Ad ogni passo mi tornavano in mente i suoi occhi e la disperazione che emergeva continuamente dal timbro della sua voce, e da quanto si fosse sentito offeso per essere stato ripreso dopo che, secondo lui, si era prodigato per mantenere decoroso il luogo dove era costretto a sostare. Ed allora mi sono sentita una stupida ed anche una un pochino stronza perché, io, proprio io, l’avvocatessa dei poveri, ero caduta nel tranello di volergli insegnare qualcosa che in fondo sapeva già e cercava d’applicare come meglio poteva. Certo, era pur vero che quel foglio di giornale l’aveva lasciato andare ed avrebbe potuto tranquillamente accettare il mio piccolo rimprovero senza inalberarsi tanto. Ma il punto era tutto lì, nella fatica del suo vivere, nella volontà ferma di dimostrare a se stesso ed alla sua donna che la vita conservava, anche in quella becera situazione, un aspetto pulito ed ordinato, che era lì, sotto gli occhi di tutti, perché lui lo voleva e non si arrendeva al destino infame che l’aveva condotto a vivere come certamente non voleva.

Aperta la porta di casa la decisione era quindi già presa. Ho posato le miei cose, ho salutato mio figlio ed i suoi amici ed arrivata in cucina ho preso un grosso succo di frutta, una confezione intonsa di dolcetti, una bustina con dei tovaglioli e dei bicchieri e mi sono avviata nuovamente da loro, decisa a stabilire una tregua e soprattutto a sancire, con un bicchiere di succo di frutta, una nuova amicizia.

Mi sono avvicinata, gli ho detto se gli andava di bere una cosa insieme e mangiare un dolcetto, convinta che loro avrebbero capito ed apprezzato ed invece la loro reazione mi ha subito fatto comprendere che avevo, sempre con le migliori intenzioni, commesso il mio secondo sbaglio nei loro confronti. La donna si è alzata e mi ha fatto capire con i gesti che non aveva nessuna intenzione di spiluccare con me e che, anzi, questo l’offendeva ulteriormente. L’uomo da prima più colpito e propenso, vedendo la reazione di lei si è negato questa stretta di bicchieri e mi ha detto che non avevano bisogno di nulla. Io, mortificata, ho cercato ancora una volta di spiegargli che il mio era soltanto un modo per dimostrargli che non avevo pregiudizi e che mi dispiaceva se le mie parole gli avevano fatto capire il contrario. Lui deve aver capito. Mi ha mostrato dei libri su cui stavano studiando, una Bibbia alla quale si aggrappavano per accettare la difficoltà di una vita che non avevano scelto e da cui cercavano di riscattarsi come meglio potevano ed ha concluso con un: “ la prossima volta” e l’ha chiusa lì. Io gli ho chiesto scusa per aver dato importanza ad una piccola svista e che apprezzavo il suo impegno per la nostra strada. Gli ho infine chiesto il suo nome e l’ho pregato di spiegare alla sua amica le mie buone intenzioni e poi, dopo un reciproco saluto, mi sono avviata mesta verso casa.

Avevo appena avuto la seconda dimostrazione che forse, per quanto non fosse assolutamente mia attenzione ferirli, l’avevo appena fatto, e per ben due volte, convinta tra l’altro nella mia boriosa, anche se inconscia presunzione, di essere democratica e dalla loro parte.

Forse loro sono stati un po’ rigidi, e questo glie l’ho anche detto, ma io sono stata indelicata e superficiale. Quel foglio di giornale stava volando via ed essendo fatto di carta prima o poi la natura lo avrebbe riciclato e soprattutto con tutto l’inquinamento che noi occidentali procuriamo al mondo forse sarebbe stato meglio tapparsi la bocca e condursi velocemente verso casa, senza infierire, senza mettere quel povero uomo in difficoltà, come fosse uno scolaretto, di fronte alla sua donna.

Avevo pensato di salvare la mia strada da un’ulteriore foglio di carta ed in fondo, in fondo insegnargli un comportamento più socialmente civico ed invece, me ne tornavo a casa con una bella lezione di dignità su cui riflettere.

martedì 10 luglio 2007

La vita

Vivere è la cosa più rara al mondo.
La maggior parte della gente esiste e nulla più.


O. WILDE

lunedì 9 luglio 2007

L'impagabilità del mio tempo

Prendendo spunto dalla poesia che ho di seguito pubblicato, vorrei parlare del tempo che è argomento che mi interessa assai. Non senza segnalare che le sintonie mentali esistono e se andrete nel blog della mia amica Marina ( ineziessenziali) ne avrete la riprova.

Il tempo, per me, è divenuto estremamente importante quasi improvvisamente.
Non che in tempi più remoti non lo fosse ma la consapevolezza della sua preziosità mi sfuggiva largamente.
Fortunatamente un giorno il Sig. Destino ha deciso che era arrivato il momento che io, come al solito assai distratta, prendessi coscienza di quanto il tempo fosse si un concetto astratto, ma comunque fortemente determinate al di là delle lancette moderne che poiché, ormai inventate, svolgono il loro compito non smettendo mai di girare.
Insomma arrivò questo particolare momento in cui la sovrapposizione degli eventi, decisi dal Sig. Destino, mi costrinse ad una nuova valutazione del mio tempo.
Mi trovai nel giro di poche settimane rinchiusa in una serie di situazioni che mi costrinsero a dedicare la maggioranza delle mie ore giornaliere ad uno spazio lavorativo lunghissimo ed infruttuoso.
La cosa di per se già costrittiva e frustrante si accostò al tempo determinato che una persona a me molto cara vedeva segnalata a lettere maiuscole e rosse sulla propria tabella di marcia.
Imparai allora, vivendo la contrapposizione di queste due parallele situazioni, quanto sia assurdo il modo in cui io, come molte altre persone, impiego incoscientemente la concessione che la vita mi ha donato.
Da una parte vedevo il conto alla rovescia che può arrivare improvviso e senza appello e dall’altra ero costretta, per il vile ma necessario denaro, a restare inchiodata, per un tempo veramente sproporzionato, a giornate trascorse senza poter far nulla se non stare chiusa dentro le stanze del mio ufficio.
Lo sfregarsi di queste due contraddizioni mi portò ad una inevitabile presa visione di come la nostra società ci costringa in situazioni paradossali e questo in un crescendo inarrestabile mi ha condotto ad avere un attenzione nuova nei confronti del mio tempo e del suo utilizzo.
E poiché gli spunti di riflessione sgorgano come cascate nell’istante in cui un ambito specifico inciampa nel nostro interesse personale, durante un viaggio lungo il Nilo quello che aveva iniziato a fare capolino dentro di me nel beato mondo occidentale si inerpicò velocemente nella cima delle mie convinzioni.
Le rive del Nilo sono una dimensione sospesa nello scorrere dei secoli e il lento languire della vita che si svolge nei due lembi che divide ha un fascino ed un impatto sensitivo difficilmente descrivibile.
So soltanto che anche intrufolandoci all’interno di questa terra i miei compagni di viaggio che, come me avevano pagato lautamente la loro vacanza, sembravano incapaci di adattarsi alla lenta bellezza di quello che stavano vivendo.
Io li osservavo e non capivo. Ero totalmente incapace di comprendere perché loro, nonostante i privilegi da cui provenivano e che avevano trascinato sfacciatamente tra quella modesta gente, continuassero ad essere così infelici, costantemente irritabili per qual si voglia inezia. Erano ciechi delle loro fortune e della bellezza struggente che li circondava. Volgevo il mio sguardo tra i loro occhi, presuntosi ed insofferenti, e quelli dolcemente rassegnati eppur ridenti di chi incontravamo lungo la via. E non esisteva paragone. Questa umile gente batteva tutti noi dall’alto della propria atavica saggezza e mi chiedevo continuamente dove fosse il centro di questa capacità a noi quasi sconosciuta.
Tartassai di domande la nostra guida Tamar, un ragazzo non ancora trentenne, già sposato ed in attesa del quarto figlio che parlava perfettamente oltre che la nostra lingua anche l’inglese e lo spagnolo. La sua preparazione, la dolcezza delle sue parole e l’infinita pazienza che porse per soddisfare ogni mia curiosità mi condussero a capire qualche cosa che avevo iniziato ad intuire.
Lo svolgersi della loro giornata era difficile, ostacolata da mille difficoltà che noi non eravamo neanche in grado di sfiorare nel nostro egoismo, ma di contro, avevano dalla loro un dato oggettivo che li poneva in una condizione, quella si, invidiabile rispetto a noi: avevano tempo. Ed allora ripensai velocemente a tutti i luoghi del mondo che avevo visitato e mi resi conto che, laddove la gente sorrideva nonostante tutto, anche di fronte ad una vita infame conservando una dolcezza squisita, ebbene, in questi luoghi privati di molto, le persone conservano se non altro il privilegio del loro tempo.
Certo può apparire assai frettoloso giudicare la loro serenità legandola a questo unico aspetto ma continuando a sforzare la mia capacità di comprensione non riesco a vedere molte altre risposte se è vero che noi, gli opulenti occidentali continuiamo ad essere così rabbiosi ed irascibili anche durante le nostre cosiddette vacanze.
Io sono una di quelle persone che, sempre in nome del vile denaro, si vede costrette a dedicare al proprio lavoro ed al tempo per gli spostamenti necessari dalle 10 alle 12 ore al giorno. Quando torno a casa sono talmente abulicamente annientata da strisciare come un verme dalla tavola al divano per poi condurmi già addormentata sopra al mio letto che mi troverà ancora stanca la mattina successiva quando, la metallica sveglia e non il gallo, mi annuncerà che un’altra uguale giornata mi attende.
Non voglio tediare nessuno con le mie lamentele personali ma ogni giorno, d’allora, mi alzo e mi chiedo se sono veramente una privilegiata od una stupida, ormai persa in dinamiche che non riconosco più totalmente valide, contro le quali fatico a destreggiarmi od ad imporre la giusta determinazione per riprendermi la mia vita ed il mio tempo.
Ad onor del vero per dare un senso costruttivo alle miei “chiacchere” devo dichiarare che ci sto provando, ce la sto mettendo veramente tutta per cambiare quello che potrebbe sembrare una via segnata. Intanto ho rallentato i miei ritmi personali, quelli su cui ho un controllo diretto, diciamo che cerco di prendermela comoda appena posso. Ho poi gettato le redini delle mie manie carrieristiche da cui mi ero fatta attanagliare. E poi, il dato più importante è che sto cercando di trovare una via di fuga a questa tipologia di lavoro. Ma non è facile. I desideri di agiatezza da cui mi sono fatta avviluppare stentano a trovare una decisione ferma nel mandare tutto all’aria e vivere con meno mezzi ma più libertà. E si, perché in fondo a tutto ciò ho capito che io sono una schiava, una schiava sottomessa e priva di vero coraggio. Le mie schiavitù sono infinite e non ne sono orgogliosa ma almeno le ho inquadrate e forse, dico onestamente forse, arriverà il giorno in cui riuscirò a liberarmene. Nel frattempo mi dimeno e dilanio nella consapevolezza che questo tempo e quello già passato non l’avrò in dietro e che, per quanto il lavoro sia indispensabile e civicamente giusto in un contesto sociale, non esistono ricompense a giornate intere dedicate ad un unico ambito della propria vita nel sacrificio di altri assai ed indiscutibilmente più importanti. Ma nel frattempo lotto, con me stessa e con i pregiudizievoli obblighi di una società che dietro una patinata facciata sta divenendo sempre più tirannica.


A che cosa ci serve il tempo?

Allora, nei tempi antichi, non ne avevamo mai bisogno.
Noi ci orientavamo secondo il sorgere ed il calar del sole.
Non dovevamo mai affrettarci.
Non avevamo mai bisogno di guardare l'orologio.
Non dovevamo essere al lavoro ad una determinata ora.
Noi facevamo quello che doveva essere fatto, quando per noi era opportuno.
Ma noi stavamo attenti a farlo, prima che il giorno volgesse al termine.
Noi avevamo più tempo,
poichè il giorno era ancora intatto.

Scott Eagle

Tratto dal libro " Lo sai che anche gli alberi parlano".

venerdì 6 luglio 2007

Le sofferenze di una scrittrice.

Ieri ho partecipato alla presentazione di un libro. L’autrice è una ragazza giovane e simpatica che si è cimentata con un filone di sicuro “acchiappo”: il sesso.

Lei con molta semplicità ha raccontato come, casualmente, è riuscita a trasformare il gioco di un dibattito via internet in un contratto editoriale.

Ho ascoltato con attenzione le sue parole, l’itinerario della sua pubblicazione e la soddisfazione che sta provando per una possibilità di promozione veramente ampia e l’ho invidiata per essere riuscita lì dove io ancoro non oso neanche sperare.

Io non tendo all’invidia, se non in pochissimi e rari casi che comprendono nell’ordine: le compagne di Brad Pitt, chi ha la possibilità di viaggiare per gran parte dell’anno e coloro che sono riusciti con merito a fare della scrittura la loro professione. E’ consequenziale perciò che io invidi con benevolenza tutti gli scrittori certificati da pubblicazioni.

La signorina di cui sopra quindi può, volendo, mettermi a tacere pronunciando soltanto due semplici parole: “libro edito”.

Nonostante ciò, ritengo di poter comunque esprimere la soddisfazione che ho provato nel rileggere alcune righe del mio “non ancora edito libro”. Ogni pagina del suddetto è piena di un’attenzione sofferta. E’ “vissuto”, come ama ripetermi un mio estimatore. Non ci sono parole lanciate sul foglio a caso, tutt’altro, la ricerca dei termini è stata degustata e ripetuta tra la mente e le labbra fino a quando non è stata in grado di rendere esattamente la sensazione, l’immagine che io avevo nella mia testa.

Io amo il mio libro e credo in lui. Lo penso da quando sono piccola, l’ho voluto e ambito con tutte le miei forze. L’ho scritto inseguendo ritagli di tempo rubati alla mia vita, ma oggi ne sono fiera e, pazienza se ancora non è edito. Forse un giorno lo sarà e se così non dovesse essere, continuerò a pensare che tanti scrittori si sono visti respingere i loro manoscritti, eppure erano dei geni e soltanto la loro perseveranza ha dato ragione alle loro “indubbie” capacità.

Io sono una persona determinata e tenace e proverò a realizzare questo mio sogno. Se c’è una cosa che ho imparato, infatti, è che la vita premia chi non smette di sognare, chi in qualche modo conserva dentro di se il pensiero magico dei bambini che non smettono mai di credere che tutto si possa realizzare.

Non l’avevo ancora detto ma io oltre che scrittrice mi sento ancora una birba di bambina.

giovedì 5 luglio 2007

Donne

Oggi convegno.

Il mio capo è impegnato in una delicatissima giornata, nella quale ha riposto le sue speranze per portare a casa un risultato importante. Noi del suo staff siamo stati precettati per assisterlo. Quando entro nell’immensa sala, vestita di tutto punto come si conviene ad un occasione di questo tipo, i miei colleghi sono già tutti schierati. I rapaci predatori di scalate carrieristiche sono tutti lì, pronti a beccare al volo qualunque occasione per mettersi in luce.

Gli uomini sembrano reggere sulle loro spalle il peso del mondo. Hanno l’aria preoccupata e spavaldamente vanitosa di chi è convinto di avere dentro la propria testa l’unica, incontrovertibile sapienza sui fatti salienti del giorno. Si muovono tra i corridoi delle poltrone con un cellulare sempre attaccato all’orecchio e parlando, non si sa bene a chi, magari alla nonna o all’amante, gesticolano per rendere evidente a tutti la loro presenza, l’importanza del proprio ruolo. Intollerabili.

Le mie colleghe, coloro che in quanto donne lavoratrici in un universo di uomini dovrebbero compattare le fila e tendere saggiamente ad un unico e comune risultato, se ne stanno lì, in attesa che qualcuno, magari lui, il grande capo le degni di un incarico che faccia schiattare d’invidia tutte le altre. E si, perché è esattamente in questo punto che noi donne ci impantaniamo: nella nostra ancestrale ed invincibile rivalità. Ci osserviamo, scrutiamo, misuriamo pensando non tanto alle nostre rispettive professionalità ma soffermandoci veramente oltre il necessario sul vestito dell’altra, sul suo aspetto più o meno piacevole, più o meno giovane. E qualora il maschietto di turno, a maggior ragione se è il nostro capo, degna qualcuna di noi di un incarico, di un’attenzione improvvisa, le altre vanno subito a ricercare in ambiti non lavorativi la fortuna di quella scelta.Nella conferma di quanto detto, facendo il mio ingresso in sala ricevo quasi all’unisono gli sguardi di tutte le donne presenti. Misurano il mio potere di seduzione, non tremano per le mie capacità lavorative.

Insostenibile.

Fortunatamente esiste anche l’amicizia e quindi Luisa e Vittoria mi salutano amabilmente. Le altre, anche quelle degli altri uffici, mi sfiorano con uno sguardo di sufficienza.

Soprassiedo. La giornata sarà di per se pesante e, non ho nessuna voglia di sprecare energie su questioni inutili.

Il capo si avvicina con le due segretarie personali al seguito. Il fatto di averle scelte oltre i cinquanta non ci privilegia di un loro comportamento saggio e materno, tutt’altro. La loro età, ed un’evidente arroganza caratteriale, le rende due iene affamate di errori altrui che usano per confermare a se stesse e soprattutto a lui, il grande capo, che la loro esperienza ed affidabilità non ha prezzo e non è contrattabile con la fresca e umile volontà di migliorarsi delle assistenti più giovani.

Passandomi accanto entrambe quasi non mi salutano.Le guardo e penso a perché sono così becere. Io non sono una carrierista sgomitante, cerco sempre di essere gentile e, poiché la mia vita è assai piena di belle cose, non ho nessuna smania di starmene come loro chiusa venti ore in ufficio. L’ho detto mille volte ed agisco di conseguenza. Non sono una di quelle che sta sempre intorno al “Boss” o dietro alla sua porta eppure, non c’è niente da fare loro, le due iene, sono sempre più acide.

A volte le osservo da lontano: sorrisi e movenze feline con quasi tutti gli uomini – tranne quelli dichiaratamente sfigati – distaccate e sibilline con la maggioranza delle donne – tranne quelle più grandi di loro e ufficialmente incapaci e brutte.

Si posizionano sotto il palco in posizione strategica, il Capo è già via perso in mezzo a mille conversazioni IMPORTANTI.

Mi guardo intorno e penso a che cosa ci sto a fare in questo posto assurdo, in mezzo a gente assurda proiettata in dimensioni che non mi appartengono. Per togliermi da questi frustranti pensieri chiedo ad una delle due iene se posso essere utile, e loro girandosi come verso un fastidioso moscerino, quasi si stupiscono che io possa aver mai pensato di essere utile a chicchessia. Poi nell’occhio di una delle due passa veloce un lampo maligno in un sorriso velenoso, mettendo fuori impercettibilmente la linguetta, mi ordina, dicasi ordina, di andare a prendere le bottigliette d’acqua per il tavolo del palco.

Felice di avermi umiliato si gira soddisfatta, certa di non rivedermi per il resto della giornata. Io mi volto mandandola in tutti i posti più brutti che mi vengono in mente e, dinoccolata sui miei tacchi troppo alti, mi avviò verso il bar interno. Penso alla cura che ho messo nel vestirmi, a quanto mi ero preparata sugli argomenti del giorno e mi dico che la prossima volta, invece di farmi precettare per fare la barista, mi do malata e me ne vado a spasso. Non meritano il mio impegno né la mia onestà lavorativa.

Arrivata davanti al bancone mi faccio consegnare una confezione di bottigliette d’acqua e mesta me ne torno in sala, più che certa che questa volta gli sguardi delle altre saranno compiaciuti. Cerco dentro di me lo sforzo di una postura orgogliosa e, passando nel corridoio centrale, mi dirigo dritta dritta verso le scalette che danno accesso al palco quando, inaspettatamente, il mio capo vedendomi incedere con passo traballante per il peso delle dodici bottigliette si stacca dal gruppetto con cui stava parlottando e, avvicinandosi, mi toglie dalle mani la confezione, chiama un maschietto con cellulare annesso e rivolgendomi un magnifico sorriso mi chiede perché mai stessi portando io quel pesante pacco.

Avrei molto da dire al riguardo ma un occasione così non va sprecata. E’ il mio momento. Lo guardo, gli sorrido volutamente affannata e girando lo sguardo verso la iena bruna gli rispondo che si, è stata lei a chiedermelo pensando di fare a lui cosa gradita.

Lui la fulmina con gli occhi e poi, forse per scusarsi della evidente cattiveria di cui sono stata oggetto, mi chiede con la massima gentilezza di cui è capace, di assistere un suo ospite per il resto della giornata.

Si volta quindi verso il gruppetto con cui l’avevo trovato a parlare, chiama uno di loro e presentandomelo gli comunica che sono una sua affidabile assistente e che per quella giornata sarò io a prendermi cura di lui.

Davanti a me un metro e ottantacinque di fascino e carineria.

Il tizio, di cui non afferro bene il nome, mi osserva e poi spalancando due magnifici occhi mi sorride dichiarandosi felice di tale privilegio. Vendetta è compiuta.

I visi delle iene sono lividi.

Lo vedi – mi dico- il vestito era quello giusto...In fondo anche io resto sempre una donna.

mercoledì 4 luglio 2007

Pensiero Indiano

GRANDE SPIRITO, PRESERVAMI dal giudicare un uomo, non prima di aver percorso un miglio nei suoi mocassini.

Tratto da " Sai che gli alberi parlano".

martedì 3 luglio 2007

Poesia di Tagore

Nei sentieri già tracciati io mi perdo.

Una Tazza di tè

"Un maestro giapponese ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Il maestro servì il tè. Colmò la tazza al suo ospite e poi continuò a versare. Il professore guardò trabboccare il tè, poi non riuscì più a concentrarsi. " E' ricolma. Non ce n'entra più!". " Come questa tazza," disse il maestro" tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?".
Tratto da 101 storie Zen