Oggi convegno.
Il mio capo è impegnato in una delicatissima giornata, nella quale ha riposto le sue speranze per portare a casa un risultato importante. Noi del suo staff siamo stati precettati per assisterlo. Quando entro nell’immensa sala, vestita di tutto punto come si conviene ad un occasione di questo tipo, i miei colleghi sono già tutti schierati. I rapaci predatori di scalate carrieristiche sono tutti lì, pronti a beccare al volo qualunque occasione per mettersi in luce.
Gli uomini sembrano reggere sulle loro spalle il peso del mondo. Hanno l’aria preoccupata e spavaldamente vanitosa di chi è convinto di avere dentro la propria testa l’unica, incontrovertibile sapienza sui fatti salienti del giorno. Si muovono tra i corridoi delle poltrone con un cellulare sempre attaccato all’orecchio e parlando, non si sa bene a chi, magari alla nonna o all’amante, gesticolano per rendere evidente a tutti la loro presenza, l’importanza del proprio ruolo. Intollerabili.
Le mie colleghe, coloro che in quanto donne lavoratrici in un universo di uomini dovrebbero compattare le fila e tendere saggiamente ad un unico e comune risultato, se ne stanno lì, in attesa che qualcuno, magari lui, il grande capo le degni di un incarico che faccia schiattare d’invidia tutte le altre. E si, perché è esattamente in questo punto che noi donne ci impantaniamo: nella nostra ancestrale ed invincibile rivalità. Ci osserviamo, scrutiamo, misuriamo pensando non tanto alle nostre rispettive professionalità ma soffermandoci veramente oltre il necessario sul vestito dell’altra, sul suo aspetto più o meno piacevole, più o meno giovane. E qualora il maschietto di turno, a maggior ragione se è il nostro capo, degna qualcuna di noi di un incarico, di un’attenzione improvvisa, le altre vanno subito a ricercare in ambiti non lavorativi la fortuna di quella scelta.Nella conferma di quanto detto, facendo il mio ingresso in sala ricevo quasi all’unisono gli sguardi di tutte le donne presenti. Misurano il mio potere di seduzione, non tremano per le mie capacità lavorative.
Insostenibile.
Fortunatamente esiste anche l’amicizia e quindi Luisa e Vittoria mi salutano amabilmente. Le altre, anche quelle degli altri uffici, mi sfiorano con uno sguardo di sufficienza.
Soprassiedo. La giornata sarà di per se pesante e, non ho nessuna voglia di sprecare energie su questioni inutili.
Il capo si avvicina con le due segretarie personali al seguito. Il fatto di averle scelte oltre i cinquanta non ci privilegia di un loro comportamento saggio e materno, tutt’altro. La loro età, ed un’evidente arroganza caratteriale, le rende due iene affamate di errori altrui che usano per confermare a se stesse e soprattutto a lui, il grande capo, che la loro esperienza ed affidabilità non ha prezzo e non è contrattabile con la fresca e umile volontà di migliorarsi delle assistenti più giovani.
Passandomi accanto entrambe quasi non mi salutano.Le guardo e penso a perché sono così becere. Io non sono una carrierista sgomitante, cerco sempre di essere gentile e, poiché la mia vita è assai piena di belle cose, non ho nessuna smania di starmene come loro chiusa venti ore in ufficio. L’ho detto mille volte ed agisco di conseguenza. Non sono una di quelle che sta sempre intorno al “Boss” o dietro alla sua porta eppure, non c’è niente da fare loro, le due iene, sono sempre più acide.
A volte le osservo da lontano: sorrisi e movenze feline con quasi tutti gli uomini – tranne quelli dichiaratamente sfigati – distaccate e sibilline con la maggioranza delle donne – tranne quelle più grandi di loro e ufficialmente incapaci e brutte.
Si posizionano sotto il palco in posizione strategica, il Capo è già via perso in mezzo a mille conversazioni IMPORTANTI.
Mi guardo intorno e penso a che cosa ci sto a fare in questo posto assurdo, in mezzo a gente assurda proiettata in dimensioni che non mi appartengono. Per togliermi da questi frustranti pensieri chiedo ad una delle due iene se posso essere utile, e loro girandosi come verso un fastidioso moscerino, quasi si stupiscono che io possa aver mai pensato di essere utile a chicchessia. Poi nell’occhio di una delle due passa veloce un lampo maligno in un sorriso velenoso, mettendo fuori impercettibilmente la linguetta, mi ordina, dicasi ordina, di andare a prendere le bottigliette d’acqua per il tavolo del palco.
Felice di avermi umiliato si gira soddisfatta, certa di non rivedermi per il resto della giornata. Io mi volto mandandola in tutti i posti più brutti che mi vengono in mente e, dinoccolata sui miei tacchi troppo alti, mi avviò verso il bar interno. Penso alla cura che ho messo nel vestirmi, a quanto mi ero preparata sugli argomenti del giorno e mi dico che la prossima volta, invece di farmi precettare per fare la barista, mi do malata e me ne vado a spasso. Non meritano il mio impegno né la mia onestà lavorativa.
Arrivata davanti al bancone mi faccio consegnare una confezione di bottigliette d’acqua e mesta me ne torno in sala, più che certa che questa volta gli sguardi delle altre saranno compiaciuti. Cerco dentro di me lo sforzo di una postura orgogliosa e, passando nel corridoio centrale, mi dirigo dritta dritta verso le scalette che danno accesso al palco quando, inaspettatamente, il mio capo vedendomi incedere con passo traballante per il peso delle dodici bottigliette si stacca dal gruppetto con cui stava parlottando e, avvicinandosi, mi toglie dalle mani la confezione, chiama un maschietto con cellulare annesso e rivolgendomi un magnifico sorriso mi chiede perché mai stessi portando io quel pesante pacco.
Avrei molto da dire al riguardo ma un occasione così non va sprecata. E’ il mio momento. Lo guardo, gli sorrido volutamente affannata e girando lo sguardo verso la iena bruna gli rispondo che si, è stata lei a chiedermelo pensando di fare a lui cosa gradita.
Lui la fulmina con gli occhi e poi, forse per scusarsi della evidente cattiveria di cui sono stata oggetto, mi chiede con la massima gentilezza di cui è capace, di assistere un suo ospite per il resto della giornata.
Si volta quindi verso il gruppetto con cui l’avevo trovato a parlare, chiama uno di loro e presentandomelo gli comunica che sono una sua affidabile assistente e che per quella giornata sarò io a prendermi cura di lui.
Davanti a me un metro e ottantacinque di fascino e carineria.
Il tizio, di cui non afferro bene il nome, mi osserva e poi spalancando due magnifici occhi mi sorride dichiarandosi felice di tale privilegio. Vendetta è compiuta.
I visi delle iene sono lividi.
Lo vedi – mi dico- il vestito era quello giusto...In fondo anche io resto sempre una donna.
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