Prima arriva il malessere,
spiacevole sensazione dai contorni indefiniti che nello stato emotivo
indica di non sentirsi a proprio agio in una precisa situazione.
Poi subentra la presa d’atto, brutale momento di verità, o
di realtà in cui per un complicato sistema d’incastri la mente, gli eventi, il
contesto d’azione mettono in ordine il malessere e lo definiscono. Questa fase
può anche avere una cronologia inversa: contesto, eventi, mente, ma il
risultato non muta.
La verità/realtà irrompe con tutta la sua potenza e spiazza
qualunque melina avevamo messo in atto per resistere al determinate passaggio
successivo: la consapevolezza.
Consapevolezza: istante sublime in cui tutti i nostri
circuiti celebrali ed emotivi convergono e s’innalzano per condurci fuori, in
alto, alla luce. Nonostante la spinta positiva, anche questa fase, come ogni
atto che ci conduce ad un’espulsione ha in se una dose di dolore da cui non si
può prescindere. Ma ogni espulsione, fisica o mentale che sia, include
inevitabilmente anche una parte di piacere: il blocco che ci costringeva,
chiudeva, bloccava, tappava è saltato.
Aria. Luce. Vita.
E così un po’ stremati ci ritroviamo in una nuova
dimensione, ancora increduli ed un tantino disorientati.
Dobbiamo ricapitolare, riordinare, digerire, insomma
metabolizzare la somma di tutto ciò che è stato ed evidentemente non è più. Ma
per quanto possa apparire complicata
direi che questa è la fase in cui, anche se storditi, iniziamo a sgranchire il
nostro essere di fronte ad un nuovo orizzonte.
Appena riprese le forze iniziamo a guardarci intorno, ci
rialziamo, cerchiamo di capire che direzione prendere, o meglio quale di tutte
le possibili direzioni è quella che preferiamo, desideriamo prendere. Ma prima
di poter decidere dobbiamo ancora compiere un ultimo passaggio: il distacco.
Il distacco è il momento del taglio, della decisione voluta
di lasciare dietro di noi ciò che non è più adeguato, giusto, comodo per noi.
E’ un punto fondamentale che segna il cambiamento definitivo.
Guardiamo indietro e serenamente/consapevolmente sappiamo,
perché sentiamo, che non potrà mai più essere ciò che è stato.
E’ un po’ come
liberarsi da un vestito stretto, un legaccio doloroso, un peso che ci rallenta,
da una condizione emotiva o psichica in cui non riusciamo né vogliamo stare.
Impossibile tornare indietro, anche qualora ci provassimo sarebbe un insuccesso
garantito, una pantomima inutile che prima o poi ci riporterebbe a rivivere la
stessa scena. Quindi…
Zac!
Liberi, finalmente!
Sì, liberi poiché per quanto doloroso possa essere stato il
percorso, per quante parti di noi abbiamo dovuto disincantato da un sogno, da
una volontà, da un progetto in cui avevamo fermamente creduto. Per quanto
abbiamo dovuto macerarci, lottare, piangere e dolerci, sempre e per fortuna
arriva il momento della rinascita.
La rinascita è quell’istante sublime che generosamente si
dilata in una spazio temporale imprecisato, in cui tutta la bellezza e la forza
del nuovo si distende davanti a noi, si fa terreno ed ali per consentirci di
scegliere dove e come vogliamo andare.
E’ il momento impagabile del “Tutto è possibile”. E’ quel
lampo interiore che ci fa provare l’indescrivibile sensazione di quanto sia
potente la vita, la spinta del vivere. E per quanto gli altri o noi stessi
proviamo a maltrattarla, svalutarla, svilirla, lei, come una buona madre, non
smette di offrirci infinite possibilità.
Sono lì, sono nostre, possiamo scegliere, possiamo decidere,
possiamo…
Non è facile vivere, non lo è per niente, ma è molto più
doloroso decidere di arrendersi, di volersi attaccare alle poche gocce di un
rubinetto ormai rotto.
Rialzare la testa, pulirsi gli occhi, schiarirsi i pensieri
e poi la voce, spolverarsi via la polvere e prepararsi a ricominciare costa
tanta fatica e dolore, ma smettere di credere in se stessi e nella generosità
del proprio esistere sarebbe… Be, ognuno trovi la propria definizione, per quanto mi riguarda la definizione è:
imperdonabilmente ingiusto.