Un pò di me e la mia intervista con Maurizio Costanzo e più in giù in nuovi post

lunedì 30 giugno 2008

Due giorni, solo due giorni.

Ci sono viaggi che hanno un’importanza speciale nella nostra vita ed io ne ho appena compiuto uno.
E’ durato due giorni ed in realtà, se raccontassi dove sono stata e l’apparente nulla dei suoi evidenti fatti, nessuno si azzarderebbe a definirlo significativo; eppure lo è stato, e molto. E l’ho capito subito, appena salita in macchina ed immessa sull’autostrada.
Ero sola in questa due giorni in terra d’Abruzzo. I miei due uomini sono via, in vacanza, soli soletti a vivere uno splendido viaggio on the rode padre-figlio, ed io, ho deciso di dedicarmi un fine settimana tutto per me.
Valigetta, saluti e baci, due di là ed io di qua.: si parte!
Il sole è già alto ma la mattina è ancora giovane. Musica e la campagna che via via cancella alle mie spalle il grigio rombo della città: resto io e la natura: splendida!
La sensazione è subito particolare. La solitudine una compagna piacevole con cui inizio a dialogare.
La strada si arrampica verso vette sempre più alte e la mia mente si adegua. Penso a me, a questo piccolo momento dedicato e mi sento a mio agio. Ma è un agio particolare e mi sorprende: è un equilibrio nel quale mi vedo e mi riconosco grande e consapevole: centrata. Potrebbe bastare ma, all’uscita di una lunga galleria, una musica ben nota passa sul mio stereo: una rivelazione quasi mi travolge e rischia di sfuggirmi nella confusione emotiva che sto provando. Ma posso riavvolgere il nastro, anche se, in realtà, è un cd che farò girare su un’unica canzone, sempre la stessa. Una volta, due volte, più volte. La sensazione è troppo forte, troppo bella per non starci dentro all’infinito. Il paesaggio è mutato, le vette tornano colline, i campi di grano riprendo spazio, il sole è divenuto accecante. Afferrò uno sguardo, quello che mi mancava nel nuovo libro che sto scrivendo. Lo inseguo, ci sprofondo dentro, mi lascio trascinare dalle sensazioni: è lui, esattamente lui. Inizio a sbrigliare la fantasia, visualizzo il corpo di un uomo, il volto, i gesti che compirà. Il racconto è al suo punto di svolta; ora so ciò che accadrà. Potrebbe essere solo "inspirazione" ma c’è molto di più: ci sono io ed il senso di questa illuminazione. Afferro scorci di natura, di colori, la fantasia vola ed io mi definisco. Non è un caso che sia accaduto lungo questa strada, ritornando in questi luoghi. C’è molto del mio passato tra questo cielo e questo mare che inizia a mostrarsi, ma, è la prima volta che torno qui è non mi ripenso bambina. Anzi quasi uno sforzo spostare indietro i ricordi. Questa per me, oggi, è la terra dell’adesso e del futuro. E non riesco a pensarla che così, con questa musica struggente, con le sensazioni di una donna che rubando sostanza ad una terrà antica sta scrivendo già, dentro di se, una nuova storia.

mercoledì 25 giugno 2008

La Domus

Non ci sono moltissime cose che continuo ad apprezzare del lavoro, non il mio, intendo in genere. Sarà anche perché questa passione dello scrivere sta diventando qualche cosa di più nella mia vita e la mia attenzione, di conseguenza, vorrebbe mangiare voracemente il tempo passato in altro. Ma devo dire, e devo dirlo forte e chiaro per onestà, che ci sono delle volte che ringrazio tutte le divinità, gli amici-colleghi e soprattutto me stessa per essere parte, faticosamente parte, di questo mondo lavorativo complesso ma che, in qualche modo, non smetto d'amare; non completamente almeno.

Ieri è stata una di queste volte. Ieri ho visitato una Domus dei primi secoli D.C. che si trova esattamente sotto Palazzo Valentini ,sede della Provincia di Roma.

Gli scavi, voluti da questa poco valorizzata Istituzione, hanno riportato alla luce una parte di questa enorme abitazione romana e la Provincia ha contribuito con intelligenza e grande attenzione al nostro patrimonio culturale e monumentale a rendere superlativa la visita a questa bellezza sotterranea.

La Domus in alcuni punti è conservata benissimo e questo consente ad un visitatore d’immaginare molto bene quali fossero i fasti e le capacità decorativi del periodo del tardo Impero Romano.

Ma, come se non bastasse, una incredibile collaborazione tecnologica rende questo viaggio nel tempo qualcosa di veramente incredibile. La dove, infatti, mancano muri, ornamenti o mosaici, sapienti ricostruzioni tridimensionali, ricostruiscono ambienti, atmosfere, addirittura condizioni metereologi e personaggi che prendono vita come fossero ancora lì, padroni di quel luoghi.

Si è trascinati lontani, riportati come in un sogno in un epoca per molti aspetti irripetibile.

Piero Angela che ha contribuito alla realizzazione di questo progetto, ha ricreato un piccolo Quark all’interno di queste mura e questa cooperazione l’ha reso accessibile a tutti.

Un modo diverso, fantastico e fino a poco tempo fa inimmaginabile di guardare dal vivo un sito, quasi partecipando alla essenza che l’aveva abitato.

E’ in questi casi, quelli in cui le energie e le capacità umane si mettono al servizio della storia, della cultura e quindi dei cittadini che io mi sento orgogliosa di essere parte di questa frenetica macchina.

E’ quando l’essere umano moderno ricongiunge la sua potenziale grandezza intellettiva a quella dei suoi altrettanto eletti predecessori che io esulto. Ma lasciatemelo dire, è anche e soprattutto davanti a spettacoli di questo tipo che io scoppio, strabordo, m’inondo di una fiera consapevolezza: SONO ROMANA!!!! Questa è la mia storia, questo è il popolo da cui provengono i miei geni, questa è la mia città ed è la città più bella del mondo.

lunedì 23 giugno 2008

Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare

Non è un caso, credo, che questa mattina aprendo a caso le "Operette morali" di Leopardi io mi sia trovata tra queste pagine. I libri, io lo penso ormai da tempo, sono degli amici veri e come tali, se ti abbandoni tra le loro braccia, sapranno parlarti.


Ebbe Torquato Tasso, nel tempo dell’infermità della sua mente, un’opinione simile a quella famosa di Socrate; cioè credette vedere di tratto in tratto uno spirito buono ed amico, e avere con lui molti e lunghi ragionamenti. Così leggiamo nella vita del Tasso descritta dal Manso: il quale si trovò presente a uno di questi o colloqui o soliloqui che noi li vogliamo chiamare.


Genio. Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata o pensarne?
Tasso. Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.
Genio. Codeste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano raggi ‘attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.
Tasso. Tu dici il vero purtroppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato per le donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quello che noi immaginavamo?
Genio. Io non so vedere che colpa abbiano in questo, d’essere fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Quale cosa del mondo ha pur un ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi meraviglia che gli uomini siano uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le donne infatti non siano angeli.
Tasso. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla e riparlarle.
Genio. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti, bella come la gioventù; e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellare molto più franco e spedito che non ti venne fatto mai per l’addidietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fisso, ti metterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.
Tasso. Gran conforto. Un sogno in cambio del vero.
Genio. Che cosa è il vero?
Tasso. Il Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.
Genio. Bemne risponderò per te. sappi che dal vero al sognato, non occorre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e dolce, che quello non può mai.


Tratto da " Operette morali" di Giacomo Leopardi

giovedì 19 giugno 2008

Meme di poesie

Giacomo Leopardi - “Alla Luna”


O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuoloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile
O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affano duri!


Federico Garcia Lorca – “ All’orecchio di una ragazza”


Non volli.
Non volli dirti nulla
Vidi nei tuoi occhi
Due alberi folli
Di brezza, di riso e d’oro
Oscillavano
Non volli
Non volli dirti nulla



D.H. Lawrence – “ Prigioniero del proprio ego”


Come una pianta diventa prigioniera del sui vaso
L’uomo diventa prigioniero del suo ego, chiuso
Nella sua limitata coscienza mentale.
Allora non può più sentire
O amore, o gioire, o provare dolore.
E’ prigioniero del suo ego
Prigioniero del suo vaso
Nel vaso della sua coscienza mentale
E non può che morire, man mano.
A meno che non sia una pianta forte.
Allora può far scoppiare il vaso
Uscire dal guscio del suo ego
E mettere radici ancora nella terra,
nella terra viva.

martedì 17 giugno 2008

Chiamiamola se vuoi, "affinità elettivà"...






Che strano ritrovarti dopo tanta distanza.
Giorni vuoti di parole e di sguardi.
Ho creduto di capire ed ho spezzato ferri e chiodi. Libera! Mi sono detta, ed infatti è così che mi sento. Ma dovevo chiamarti, impossibile non farlo.
Un po’ di resistenza, è vero, ma il cuore comandava gratitudine che andava dichiarata. Ed allora, eccomi qua, a dire cose alla tua voce, di nuovo dolce, di nuovo partecipe anche se siamo lontani ed i nostri occhi non si guardano.
Tante emozioni gettate nell’aria, come sempre. Oggi potremmo dirci qualunque cosa, ce n’accorgiamo subito.
Libera! Lo dico anche a te, accorgendomi che era questa la cosa che premeva dentro, veramente.
Ascolto la tua sorpresa, a questo non avevi pensato, ma la mia voce è morbida e tu ti sollevi nell’aria.
Piccole frasi, concetti ingarbugliati che invocano pudore ma l’intesa è cosa nota e non ci stupiamo, o forse sì. Ma non c’è nulla da fare, è “Affinità elettive” quando lo vogliamo.
Un brindisi, , ma a che cosa? Qual è la vera notizia, la reale gratitudine a cui brindare?
La libertà di ritrovarci, mi viene da pensare, ancora noi, ma mai uguali.Chiudo la comunicazione, e mi chiedo se anche a te ,questa imprevedibile telefonata, abbia lasciato bollicine di champagne tra le labbra.

domenica 15 giugno 2008

Abbandonarsi negli occhi

Occhi, quanti occhi ti guardano ogni giorno?

Occhi puntati, occhi che ti schivano, che si abbassano, si alzano, ti accarezzano, ti schiaffeggiano, ti uccidono, che si inchinano e poi dolcemente si posano.
Occhi accigliati, feroci, allegri, seri, arditi, malinconici, disperati, rassegnati, felici, buoni.
Occhi indifferenti od attenti, sofferenti e dolenti, che ti amano e ti invadono.
Occhi che sanno, occhi che ignorano, occhi che vogliono e per questo ti scrutano. Occhi che insegnano, che domandano, che non rispondono, che si celano ed intanto lacrimano.
Occhi veri, occhi finti, giusti, scomodi, silenziosi, golosi, stanchi che implorano o sdegnano, che sorvolano o ti scrutano. Abbaglianti, innocenti, imploranti, ardenti, sprezzanti, arresi,ossessivi, spavaldi, accesi, spenti, attenti.
Occhi invisibili come quelli dell’anima, del cuore o della mente. Spietati come quelli della moralità, della colpa, del proprio senso critico, o del giudizio sociale.
Occhi intelligenti, persi, presenti, assenti, audaci, ironici o perdenti.
Occhi che imbarazzano, intimoriscono, esaltano ed accendono, imbrogliano e feriscono, perdonano, inquietano, incoraggiano e deludono.
Occhi belli, occhi storti, chiari, scuri, grandi, piccoli, familiari, sconosciuti, inseguiti o fuggiti.

E’ questo che inibisce il tuo agire? La paura di rebdere evidente ad altri occhi il tuo essere?
Forse non incontrarli ti farebbe sentire invisibile e quindi libero. Ma hai mai pensato che se nessuno ti guardasse tu resteresti invisibile anche a te stesso?



giovedì 12 giugno 2008

Abbandonarsi parte prima

Abbandonarsi, niente di più naturale, nulla di più difficile.
E chissà perché poi.
Lasciarsi andare dovrebbe essere semplice, naturale appunto, ma così non è.
Anzi a ben guardare, quello che sembra riuscirci meglio è l’esatto contrario: ci tratteniamo.
Ed è uno sforzo, un continuo controllo che imponiamo al nostro corpo ed ancor di più alla nostra mente.
Ci imponiamo di non dire, di non fare, di non provare, di non toccare, di non guardare, di non sentire. Non, non, non sempre il “non” a comandare la nostra vita.
E poi, quando vorremo capovolgere il nostro agire, non (ancora una volta) ne siamo capaci, non con spontaneità almeno. Dobbiamo sforzarci. Paradossale patologia del nostro vivere. Quasi che lasciarsi andare necessiti di un contraddittorio impegno.
Sembra impossibile dovere comandare a noi stessi ovvietà, respingendo la nostra stessa apparente volontà.
Anche ora che sto scrivendo, per esempio, vorrei essere capace di volare nell’estensione dei miei pensieri trasmettendovi l’ardire delle miei discorsi interiori ma qualche cosa mi frena e non so cos’è.
Comando e disubbidisco a me stessa, in un comportamento schizofrenico che mi indispettisce.
Eppure una parola molto abusata da tutti è proprio “rilassarsi”, sinonimo di: abbandonarsi, allentarsi, distendersi, rasserenarsi, tranquillizzarsi. Tutti contrari di irrigidirsi, agitarsi, tendersi, innervosirsi.
Ed è evidente quindi che, la nostra quotidianità è principalmente fatta di contratture morali e fisiche dalle quali però, almeno verbalmente, cerchiamo continuo ristoro.
Allora ho pensato che forse la vera istigatrice del nostro trattenerci è sempre lei, la più perfida e crudele delle nostre sobillatrici: la paura.
E’ lei che ci obbliga ad una vita d’inferno gettandoci negli occhi il suo manto scuro. E noi viviamo sbattendo ovunque, ciechi all’attrazione del nostro stesso voler vivere. Incapaci di scorgere il futuro non abbiamo il coraggio di aprire noi stessi allo sconosciuto.
Senza rischio. E’ così che vorremo la nostra vita. Anche se poi urliamo il contrario.
Bocche serrate, mani legate, occhi chiusi, orecchie sorde, naso tappato.
Ma questa è una vita insulsa?
Ma indolore!
E qual è il suo senso?
Nessuno!
E lo sapete tutti.
Ed infatti pronunciando inutili parole tutti inseguiamo grandi emozioni, grandi amori, grandi soddisfazioni, grandi prospettive, insomma una grande vita. Vorremmo inabissarci e sprofondare, risalire e svettare, per poter poi ridiscendere e riprendere a volare. Il tutto volendo evitare una eventuale sofferenza.
Conosco una sola parola adatta a definire tutto ciò: follia.





martedì 10 giugno 2008

Ricky




Esami di terza media: la tua prima vera prova scolastica ed io ti guardo.

Ed ogni volta che ti guardo io non smetto di stupirmi. Come se l’incanto del nostro primo incontro si ripetesse all’infinito, ad ogni sguardo che poso su di te.

Mio figlio…io non sono neanche certa di meritarlo un figlio come te.

A volte quando mi chiami “ mamma” sento l’enormità del mio ruolo nella tua vita e mi sorprendo, un’altra volta, nel domandarmi se è proprio così vero che tu possa definirmi madre.

Eppure lo sono e non vivo gioia più grande, ma vorrei che comprendessi che nella mia mente essere madre ha riferimenti autorevoli ed alti che non sono certa di saper onorare. E tu, amore mio, a volte nella mia testa di figlia sei ancora racchiuso in un’idea, in un sogno mille volte immaginato che per un dolce incantesimo è divenuto inaspettatamente sostanza, linfa della mia esistenza.

Lo so che potrà sembrarti strano: “Ma come “- mi dirai – “sono tuo figlio da tredici anni ed ancora ti sorprendi a credermi realtà?”

E sì, perché un sogno trattiene per sempre in se un’immagine fatata, e tu per me sei magia che si ripete.

Quando ti ebbi tra le braccia, nel nostro primo incontro, tu eri mistero e morbidezza ma profumavi di me ed io mi persi in quell’intimità che ci legava. Per questo ti chiesi di restare così, per sempre: piccolo come il mio amore appena sbocciato.
Avevo paura di ciò che intuivo sarebbe cresciuto, espandendosi dentro di me. E provai a resisterti, non volevo che ti radicassi profondamente in me, travolgendo il mio cuore ancora dolente per un altro sentimento fatto come per te di respiro, sangue e carne. Ma tu mi hai insegnato senza saperlo. Ed io ho imparato di nuovo ad amare, nella cascata di una gioia profusa che non conosce timori ma anzi vive tra le corrente che la trasportano.
Perché non esiste altro modo d’amare, perché nessun altro modo ha senso.

Tu così piccolo mi porgevi la manina e ti lasciavi guidare, fiducioso che avrei scelto la cosa giusta per te. Ed è stata la tua inconsapevole convinzione a spiegarmi che qualunque sia il destino è d’amore che è fatta la vita.

Oggi le tue dimensioni sono di uomo e ridi di questo tuo svettare su di me. Eppure sapessi che strana sensazione provo quando nel tuo sguardo incontro il cucciolo di allora.

Mi guardi e so che mi concedi la stessa fiducia, e come in quel tempo ti abbandoni nei miei abbracci. Sono solo io che non smetto di sorprendermi del perché di questo immeritato miracolo che sei tu nella mia vita.

In bocca al lupo amore.

domenica 8 giugno 2008

Incompiutezza

La paura dell’incompiutezza, ecco la definizione esatta di quello che arrivò, improvvisa, a chiarirgli quel senso d’inquietudine che l’aveva perseguitata negli anni.
Quel malessere doloroso e malinconico che aveva accompagnato tanti dei suoi giorni fino a quando, alla chiusura di un libro prestato da una conoscenza recente e scritto da una persona che per misteriosi motivi aveva incrociato la sua vita a più riprese, era arrivata a fornirgli.
Quella dimensione aveva vagato latente ma insidiosa dentro di lei, senza che fosse riuscita in tutto quel tempo ad afferrarne i lembi, a definirne i contenuti.
Ed ancora una volta i misteri di quelle dinamiche celebrali la colpirono.
Per quale stranezza del suo essere gli capitava, a volte, di sentire che qualcosa dentro s’impuntava, inciampava, senza che lei riuscisse a vederla, ad evitarla o superarla per tanto, troppo tempo, finché un qualcosa di imprevisto ed apparentemente scollegato, arrivava a fornirle la chiave di lettura di quel qualcosa che aveva cercato di comprendere per anni?
Ed ora era capitato di nuovo, mentre era sotto la doccia e distrattamente ripensava al senso di quel libro letto in un weekend di fine agosto. Una rivelazione.
La parola “incompiuto” le era passata con la velocità di una pulsazione, dalla testa al cuore, spuntandole in bilico tra le labbra come se il concetto che racchiudeva fosse stato sempre lì, in attesa che lei lo vedesse, lo riconoscesse come qualcosa di suo, che le apparteneva molto di più di tanti altri pensieri con cui aveva giocherellato sconsideratamente per decenni.
Era quello il punto della sua inquietudine, di quella malinconia latente che l’aveva tormentata da quando ricordava di avere memoria.
La parola era fuoriuscita dalla bocca senza che se ne rendesse conto e soltanto un attimo dopo aveva iniziato a ragionarci su.
L’incompiutezza, ecco contro cosa aveva combattuto per gran parte della propria esistenza.
Per il timore di esserne vittima si era sperticata in acrobazie mentali, azioni, fiumi di parole rivolte e pensate affinché nulla di quello che considerava importante rimanesse sospeso, non detto o non fatto. Ma la gran fatica che questo suo atteggiamento nei riguardi della vita aveva prodotto, non l’aveva ripagata con l’agognata serenità. Qualcosa rimaneva sempre indefinitamente sospeso.
La sua vita, ora le appariva chiaro, al di là di quello dire e quel fare, era stata una successione di eventi, di azioni, di volontà intraprese ma mai veramente concluse. Aveva aperto e mai chiuso un infinità di porte. Aveva tentato tanti percorsi, forse troppi, senza avere il coraggio o la voglia di arrivare fino in fondo a nessuno di essi. Quasi che averli esplorati, anche se solo parzialmente fosse bastato a chiudere dentro di se il ciclo dell’iniziale interesse
A volte non era dipeso unicamente da lei, il fato ci aveva messo del suo, ma adesso, a pensarci bene, si rendeva conto che nella stragrande maggioranza dei casi, con quell’entrare ed uscire aveva accuratamente evitato di arrivare all’apice di quello che sarebbe potuto essere.
Scoperta confortante, così di primo impatto.
Ma doveva resistere, non uscire subito neanche dal dolore di quella rivelazione sulla propria incapacità di saper restare. Forse era giunto il momento di fermarsi.

venerdì 6 giugno 2008

L'interviata su Radio Città Futura e ok

Volevo comunicare a tutti che, dopo un blak out tecnico, ora l'intervista su Radio Città Futura è di nuovo ok. Mi scuso con tutti i visitatori che sono passati e non hanno potuto ascolatrla.

giovedì 5 giugno 2008

La mia intervista a Radio Città Futura

Per commentare la mia intervista ho scelto le parole scritte da Henry Miller nella prima pagina del suo " Tropico del Cancro".

"Non ho nè soldi, nè risorse, nè speranze. Sono l'uomo più felice del mondo. Un anno, sei mesi fa, pensavo d'essere un'artista. Ora non lo penso più lo sono. Tutto quello che è letteratura, mi è cascato di dosso.
non ci sono più libri da scrivere, grazie a Dio. E questo allora? Questo non è un libro, nel senso minimale della parola. No questo è un insulto prolungato, uno scaracacchio in faccia all'Arte, un calcio alla Divinità, all'uomo, al Destino, al Tempo, all'Amore, alla Bellezza...a quel che vi pare...canterò per voi, forse stonerò un pò, ma canterò...
... Per cantare bisogna prima aprire la bocca. Ci vogliono un paio di polmoni e qualche nozione di musica. Non occorre avere fisarmoniche, o chitarre. Quello che conta è voler cantare. E dunque questo è canto. Io canto."

da "Tropico del Cancro" di Henry Miller

lunedì 2 giugno 2008

Il mio canto libero

Mi è sembrata la migliore colonna per il nuovo post che troverete di seguito.
Come sempre potrete ascoltarla, se vorrete, durante la lettura.

Circo Massimo

L’ennesimo temporale non scoraggia la tua voglia di passeggiare e la macchina ti conduce premurosa nel solito luogo del tuo gironzolare bagnato.

Il Circo Massimo.

Apri il solito ombrello con le stelle ed entri nel circo ghiaioso come fosse la tua vita.
Appena pochi passi ed incroci il cammino di una giovane ragazza.

Gli occhi si sfiorano, proseguono, tornano negli occhi. Qualcosa vi trattiene nei rispettivi visi, per un attimo, mentre i passi si fanno quasi fermi.

Tu la riconosci subito, lei stenta, poi meravigliata intuisce e ti sorride.

La pioggia aumenta il suo frustare, il cielo è plumbeo dietro San Pietro, ma il riverbero di un lattiginoso chiarore nell’iride della ragazza ti indica che dietro di te le nuvole hanno smesso di scaricare la loro rabbia e le restituisci il sorriso.

Siete oltre, anche se le spalle avvertono ancora il peso dei vostri sguardi.

“Chissà perché qui?” ti viene da chiederti “ perché sempre qui, in un giorno di pioggia battente?”

Ti commuovi per l’incertezza del suo sguardo.

Eri tu, vent’anni fa. Passandovi accanto la vita di ieri e di oggi si è trasfusa. Hai sentito la sua attesa amareggiata e dolente. E la forza del tuo presente. I momenti stanno giungendo, finalmente! Ed hai potuto rispondere, radiosa, al suo cuore che non riusciva più a credere.

“ Hai visto? Sta accadendo, uno ad uno i tuoi sogni, quelli senza tempo, quelli che sono ancora in tempo.
Li conosco tutti i tuoi sogni, li ho ripassati nella mente mille e mille volte, per non dimenticare, per essere pronta ed ora, li prendo dalla nostra scansia e respirandoci su li rendo vita, felice di poterteli donare.

Lo so, hai avuta paura, ma oggi ogni lacrima di gioia è sostanza tra le mani, le tue, le miei

Ora so perché qui, quando piove, perché te, e me.

Non c’è nessuno in questa grande arena quando piove: io, il cielo e tanta terra antica davanti a me e la mente che guarda in su inseguendo nuvole e gabbiani mentre le gambe, le nostre, corrono per spiccare un nuovo volo.

Per te, per me.